Ho l’impressione che i politici vivano in un mondo a parte, lontano dai
cittadini. E che si cibino di intenzioni di voto, di tendenze elettorali, di
poltrone e poltroncine. Ma anche una sedia a dondolo gli può bastare. L’unica
realtà che conoscono è la loro e il cittadino è sempre suddito. Nessuno
ha chiesto truppe in Libano, indulto, aumento della clandestinità e
bavaglio alle intercettazioni. Se Prodi si fosse presentato con un programma del
genere, l’originale avrebbe preso il 90% dei voti.
La legge Biagi è uno scandalo, perchè il Governo non ci ha messo mano nei primi
100 giorni? I ragazzi italiani valgono meno dei delinquenti?
Che spettacolo: importiamo schiavi e li creiamo contemporaneamente a casa
nostra.
Pubblico un’analisi degli effetti della legge Biagi di Roberto
Leombruni di LABOR e di Mauro Gallegati della Facoltà di Economia di Ancona.
“Caro Grillo,
quello che è successo all’Atesia, cui l’Ispettorato del lavoro
ha imposto di assumere a tempo indeterminato 3200 collaboratori “a
progetto” (le virgolette sono s’obbligo, perché il “progetto” era
quello di rispondere ai telefoni di un call center), dimostra quanto sia urgente
tornare su un contratto di lavoro – il contratto di collaborazione coordinata e
continuativa – che è talmente precario che quando hai finito di dire come di
chiama è già finito. A meno che non intervenga un giudice, appunto. Bene, dato
che Prodi ha affermato più volte che la lotta al precariato è
una priorità del suo governo, sarebbe una buona idea aiutare i giudici e
riformare radicalmente un contratto che negli ultimi dieci anni ha tenuto
milioni di giovani ai margini del mercato del lavoro – posizione dalla quale è
stato più agevole un loro pacato sfruttamento.
Quanti sono veramente i collaboratori? Sì, sono milioni. Era da dieci anni che
aspettavamo stime affidabili. Basti dire che l’Istat – forse pensando fossero
pochi – ha atteso il 2004 prima di introdurre una domanda ad hoc nelle sue
indagini, e dalle prime stime sembrava non fossero poi molti (se 400.000 vi
sembran pochi). Pochi giorni fa però l’Inps ha finalmente pubblicato il suo
osservatorio basato su dati reali, e ora sappiamo la verità: i collaboratori,
solo nel 2004, erano quasi il triplo, erano più di un milione.
Non stiamo parlando dei soli collaboratori, tenendo quindi fuori i
professionisti, che di solito vengono considerati tra i salvati (ma su questo
vedi più sotto, alla voce “apri la partita IVA o ti licenzio”). E anche
considerando solo le persone per le quali la collaborazione è l’unica forma di
lavoro, e hanno un contratto con un solo committente – categoria di solito
identificata come la più debole – sempre al 2004 se ne contavano 840.000.
Perché sono da cambiare.
Per tanti motivi, che vengono fuori da tante storie che si leggono anche in
questo blog. Ma il vero problema è che son nate male. Prima del ’96 l’unico modo
regolare per prendere un lavoratore per un periodo breve era quella di assumerlo
con un tempo determinato, pagando contributi sociali di circa il 33%, e – come
in tutto il mondo civile, da un secolo a questa parte – pagandogli
ferie, tredicesima e liquidazione. Esisteva però una prassi molto
vicina al lavoro nero, che era quella di proporre un contratto di prestazione
d’opera occasionale “e poi magari vediamo”, evitando così di pagare contributi e
tutto il resto. Nel ’96 però nasce la famigerata formula della “collaborazione
coordinata e continuativa”, che se ha regalato un 10% di contributi a quei
lavoratori quasi in nero, di fatto ha finito per legalizzare la prassi di
mascherare dei rapporti di lavoro dipendente sotto una etichetta ancora più
innocente della prestazione occasionale. In assenza di controlli
efficaci non c’è voluto molto perché si cominciassero a utilizzare le
collaborazioni anche nei call center (l’equivalente moderno della catena di
montaggio) e per lavori di durata di anni. Chi ne ha voluto approfittare si è
garantito una forma di lavoro a costi stracciati – rispetto al lavoro
dipendente il risparmio era di circa il 40%, meglio di un tre per due
al supermercato – e una generazione di lavoratori si è trovata a lavorare per
anni senza quasi mettere da parte nulla per la propria pensione, e con un
livello di tutele da Inghilterra dei tempi della rivoluzione industriale.
Basti pensare che solo nel 2000 è arrivata la copertura per gli infortuni e le
malattie professionali. Del diritto di sciopero ovviamente ancora niente.
Perché la riforma Biagi ha peggiorato le cose.
Per la verità una riforma c’è appena stata, con la legge Biagi, ma a parte
cambiare il nome in un “cocoprò” dal suono appena meno avicolo è stata una
riforma per molti versi peggiorativa. Le intenzioni erano di limitare l’utilizzo
improprio delle collaborazioni, e per far questo la legge richiede una forma
scritta al contratto (prima non era necessaria, anche all’invenzione della
scrittura ci abbiamo messo un po’ ad arrivarci), e che si identifichi uno
specifico progetto. Se non si può identificare un progetto l’impresa può
essere obbligata ad assumere il lavoratore con un contratto di lavoro
dipendente. È questa la clausola che è stata applicata per Atesia (come è stato
osservato, è poco credibile che più di tremila lavoratori di un call center
abbiano ciascuno il proprio progettino specifico da svolgere).
Peccato che la stessa legge stabilisca (art. 69) che il controllo del giudice
“non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e
scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. E che
con la circolare 1/2004 Maroni, come ulteriore liberalità, abbia precisato che
una cocoprò può essere rinnovata quante volte vi pare.
Come dire, basta far la fatica di scrivere una volta all’anno un progetto ah hoc
e si può tenere un dipendente a vita come collaboratore.
Nei fatti, la Biagi ha provocato una reazione quasi schizofrenica da parte delle
imprese. In molti casi, le vecchie cococò sono state semplicemente trasformate
in cocoprò. Altri, temendo la clausola citata sopra, hanno reagito con l’arma
del ricatto. Lo dimostra una ricerca dell’IRES, condotta su un campione di
persone che hanno aperto una partita IVA tra il 2003 e il 2004,
dalla quale è venuto fuori come nel 50% dei casi questi l’hanno aperta
perché gli è stato chiesto dal datore di lavoro, pena il non rinnovo
del contratto. Peccato che il 40% di loro abbiano un unico committente (l’80%
contando i rapporti quasi esclusivi), e continuino a essere a tutti gli effetti
in quella categoria dei “collaboratori puri” che si diceva”.
Archivio Schiavi Moderni
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