La scelta compiuta dalla Cgil con il congresso di marzo, sul terreno della
riforma dei rapporti di lavoro, è difficilmente contestabile nel suo assunto
di fondo: la protezione offerta dal diritto del lavoro, quale che ne sia il
contenuto, deve essere estesa a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza
economica; va superata la distinzione, in larga misura artificiosa, tra
"subordinazione" e "parasubordinazione", tra "lavoratori" e "collaboratori
continuativi"; va disboscata la giungla dei rapporti di lavoro "atipici", che
genera distorsioni e disparità di trattamento ingiustificate e che, oltretutto,
con la sua complessità non giova neppure alle imprese; è ora di superare il
dualismo che (non in conseguenza della legge Biagi del 2003, ma in misura
crescente ormai da molti anni) caratterizza fortemente il diritto e il mercato
del lavoro italiani, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui imprese
ed enti pubblici hanno bisogno soprattutto sulle nuove generazioni.
Un nuovo assetto del lavoro tipico
Questa opzione, tuttavia, pone bruscamente la stessa Cgil e
l’intero movimento riformatore di fronte a un dilemma cruciale. Estendere a
tutti i lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza lo Statuto dei
lavoratori, così com’è, non è possibile senza imporre al sistema un’ingessatura
insopportabile e senza mandare a casa centinaia di migliaia, se non milioni, di
persone.
Se la parola d’ordine della riunificazione del diritto e del mercato del
lavoro non vuole restare uno slogan vuoto, se vuole portare a una riforma
effettiva e incisiva, essa comporta l’ideazione di una nuova "rete di sicurezza"
davvero suscettibile di applicazione universale: un nuovo assetto del rapporto
di lavoro tipico, capace di sostituire l’intera giungla attuale di tipi
contrattuali.
Voltar pagina rispetto a vent’anni di crescente dualismo del mercato del lavoro
italiano è il solo significato positivo che la politica del lavoro del nuovo
Governo può attribuire alla propria scelta programmatica del "superamento" della
legge Biagi. Un significato che sarebbe certamente piaciuto allo stesso Marco
Biagi (posso dirlo, per averne lungamente discusso con lui negli ultimi anni
della sua vita) e che aiuterebbe a trovare un punto di intesa su questo tema non
solo tra le diverse anime del centrosinistra, ma anche con alcuni settori
dell’opposizione interessati a evitare il "muro contro muro" su quella legge.
Se questo è l’obiettivo, il nuovo assetto del rapporto di lavoro tipico dovrà,
sì, estendere a tutti i lavoratori, fin dal loro primo ingresso nel tessuto
produttivo, oltre alle assicurazioni sociali fondamentali per malattia,
maternità/paternità, invalidità e disoccupazione, anche una protezione piena e
forte contro le discriminazioni e contro l’uso arbitrario o comunque infondato
del potere disciplinare. Ma, per il resto, nella prima fase della vita
lavorativa i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere un grado di
stabilità minore rispetto alle fasi ulteriori. Questo è necessario,
innanzitutto, per consentire la migliore allocazione delle risorse umane nel
tessuto produttivo: ciò che può richiedere talvolta più di un tentativo di
inserimento aziendale della stessa persona, in funzione del suo stesso interesse
alla migliore valorizzazione delle sue capacità. Ma è necessario, inoltre, per
evitare un drastico effetto depressivo sulle possibilità dei giovani di
accesso al lavoro regolare: in un sistema nel quale la prima assunzione fosse
consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità, i più
giovani sarebbero fortemente penalizzati rispetto a chi già lavora e ha quindi
già alle spalle una storia professionale che fornisce informazioni sulle sue
qualità specifiche (non va dimenticato che proprio per questo, nella seconda
metà degli anni Settanta, fu il sindacato – sulla scorta soprattutto di un’idea
di Bruno Trentin - a chiedere l’introduzione del contratto di formazione e
lavoro: cioè, in sostanza, un contratto a termine di ingresso con retribuzione
ridotta, in funzione dell’inserimento professionale dei più giovani).
Le tre proposte
I tre progetti che vengono presentati qui di seguito
costituiscono un contributo a questa riforma. L’idea che li accomuna è quella di
delineare un dispositivo di accesso graduale al regime di stabilità piena
del rapporto di lavoro, suscettibile di sostituirsi integralmente all’insieme
eterogeneo dei rapporti di lavoro "fuori standard" che caratterizzano il regime
attuale.
Il primo (Boeri-Garibaldi) prevede un rapporto di lavoro unico a tempo
indeterminato, assistito fin dall’inizio da protezione forte (articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori) contro discriminazioni e licenziamento disciplinare
ingiustificato, e, per quel che riguarda il licenziamento per motivi
economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre anni di
protezione soltanto indennitaria. Il secondo (Leonardi-Pallini) si
caratterizza rispetto al primo per una flessibilizzazione più limitata della
tutela contro il licenziamento per motivi economico-organizzativi: un periodo di
franchigia allungato fino al massimo di un anno, seguito da un regime di mera
incentivazione dell’accordo economico tra le parti per la cessazione del
rapporto in alternativa all’applicazione della vecchia disciplina protettiva,
sul modello della legge tedesca Hartz del 2003. Il terzo
(Andrea Ichino) si distingue invece dai primi due per la previsione, in
alternativa al contratto da tempo indeterminato con protezione piena fin
dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un contratto a termine di
durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso la stessa impresa,
fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre volte presso imprese
diverse, e con costi di transazione ridotti al minimo; in altre parole: libertà
di sperimentare con il lavoratore a termine, purché sia un esperimento serio,
con un orizzonte temporale sufficientemente ampio, sul quale l’ente o impresa
che assume investe almeno tre anni di retribuzione (una soluzione che presenta
un interesse particolare per il settore pubblico).
Sono solo tre possibili assetti di un nuovo regime unitario del rapporto di
lavoro tipico, suscettibili anche di combinazione tra loro, o di diverse
modulazioni dei parametri di protezione. Suscettibili, peraltro, di favorire
l’ingresso o il rientro nel mercato del lavoro non solo dei giovani, ma anche
delle donne dopo la maternità, nonché di qualsiasi lavoratore maturo o anziano,
per il quale l’alternativa secca tra disoccupazione e stabilità integrale
costituisce sovente un ostacolo grave al reimpiego. Sono tre possibili riforme
della materia a costo zero per le casse dello Stato. E sono tre possibili
riforme politicamente più facili, per la prudenza e moderazione cui sono
ispirate, rispetto ad altre di cui si è discusso di recente in Europa (tutte e
tre meno radicali, per esempio, rispetto a quella
proposta da Blanchard e Tirole, che pure merita sempre di essere tenuta
presente nel dibattito, per la logica stringente cui essa si ispira).
Ma ciò che più conta è che, per un verso, il superamento del dualismo attuale
tra lavoro "di serie A" e "di serie B" non è ragionevolmente pensabile se non
attraverso una rimodulazione delle protezioni almeno nella prima fase della
carriera lavorativa di tutte le persone. Per altro verso, esso è
politicamente proponibile - nel quadro di una riforma concertata tra le parti e
il Governo sul modello dell’accordo tripartito spagnolo di questi giorni -
proprio in quanto la rimodulazione riguarda soltanto quella prima fase, non
intaccando pertanto l’assetto del rapporto né nella fase intermedia né in quella
finale.
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