L’articolo
di Norberto Bottani, apparso su lavoce.info del 14 settembre scorso, ha
giustamente evidenziato la difficile transizione dalla scuola al lavoro
in Italia, la bassa proporzione di giovani che coniugano formazione e attività
professionale e, tra le cause di questo fenomeno, la mancanza di una struttura
della formazione professionale che permetta di alternare l’apprendimento alla
pratica in azienda.
Scolarizzazione e dispersione scolastica
L’indicatore della dispersione scolastica nel segmento dell’istruzione
secondaria – misurato attraverso la percentuale di popolazione tra i diciotto
e i ventiquattro anni che ha terminato soltanto il primo ciclo dell’istruzione
secondaria inferiore e non prosegue gli studi o una formazione – evidenzia in
termini inequivocabili la gravità del problema, che assume contorni ancora più
netti nel confronto comparato. In Italia, nel 2003, si registra un ritardo
considerevole rispetto al benchmark europeo (23,5 per cento, rispetto al 10
per cento previsto nel 2010 dalla Strategia di Lisbona), più evidente per la
componente maschile. Il confronto con altre realtà europee colloca l’Italia
(dati al 2002) in terz’ultima posizione, con un forte divario non solo
rispetto alla media Ue
(18,5 per cento), ma anche alla media dei nuovi paesi membri che già oggi, con
l’8,4 per cento, raggiungono l’obiettivo del benchmark. La riduzione
del numero di giovani in condizione di debolezza sul mercato del lavoro e
nell’esercizio della cittadinanza attiva passa fondamentalmente attraverso
l’innalzamento della quota di studenti che completano il ciclo di
istruzione-formazione secondaria superiore. Il secondo benchmark di Lisbona,
misurato in questo caso come percentuale di giovani di ventidue anni che hanno
completato almeno l’istruzione secondaria superiore, vede l’Italia al 72,9
per cento nel 2002 (obiettivo Ue
fissato all’85 per cento), seguita solo dalla Spagna e dal Portogallo, mentre
i nuovi paesi dell’Unione si posizionano nel complesso intorno al 90 per
cento, con punte significative in Slovenia (94,6 per cento) e nella Repubblica
Ceca (93,4 per cento).
Confronto internazionale rispetto a quattro benchmark su istruzione e
formazione

Fonti: elaborazione su dati Eurostat, OCDE, Istat
I dati confermano che la transizione dalla scuola al lavoro resta difficile
e, certamente, costituisce uno dei principali problemi del nostro paese. Non si
può tuttavia concordare con il quadro pessimistico con cui si chiude
l’articolo di Norberto Bottani, secondo il quale si sono apprestati
recentemente solo "alcuni ritocchi cosmetici", che poco o nulla
incidono sulla situazione. Il permanere di un margine significativo di
dispersione scolastica nel segmento dell’istruzione secondaria superiore e gli
alti costi sociali del fenomeno sono invece alla base delle recenti scelte di
policy. Capisaldi di queste azioni sono, da un lato, l’istituzione del diritto-dovere
a istruzione e formazione fino al raggiungimento della maggiore età.
Dall’altro, lo sforzo verso una diversificazione e razionalizzazione
dell’offerta di istruzione secondaria introdotta dalla legge 53/03, che
opera in sinergia con le previsioni della legge Biagi per quanto riguarda in
particolare la disciplina del nuovo apprendistato e il ruolo assegnato a
istituti scolastici e università per creare occasioni di occupabilità e
garantire il collocamento nel mercato del lavoro dei propri studenti. (1)
Nuovo apprendistato, formazione professionale e tirocini
Con la legge Biagi si è riformato il sistema dell’apprendistato con
l’obiettivo di offrire: i) ai giovanissimi che non proseguono gli studi dopo
l’obbligo scolastico, l’opportunità di inserirsi in un canale
professionale a forte valenza formativa che permetta l’acquisizione della
qualifica professionale e il conseguimento del diritto-dovere all’istruzione
per dodici anni e la possibilità di rientrare nel sistema dell’istruzione; ii)
ai giovani già in possesso dell’obbligo formativo, canali di lavoro e di
apprendimento attraverso l’apprendistato professionalizzante e
l’apprendistato di alta formazione per l’acquisizione di un diploma o di un
titolo di studio universitario e post-universitario. Con la messa a regime della
riforma sarà possibile costruire percorsi unitari in cui la componente formale
dell’apprendimento sia integrata a quella non formale, in cui l’impresa
svolga un ruolo formativo in modo progettato e consapevole, in cui
l’apprendista capitalizzi ogni aspetto del sapere acquisito e partecipato per
una professionalità compiuta. I percorsi secondari e universitari e le fasi di
transizione alla vita attiva si sono arricchiti di periodi di apprendimento
in impresa attraverso l’implementazione, ormai pluriennale, dei tirocini
formativi e di orientamento. Il monitoraggio avviato negli ultimi tre anni
mostra un fenomeno in sviluppo e di crescita delle imprese ospitanti (l’11 per
cento delle imprese e il 53,4 per cento di quelle con più di 250 dipendenti
secondo gli ultimi dati dell’indagine Excelsior riferiti al 2003).
La formazione permanente
Per rispondere alla domanda di formazione continua in generale (incremento
tassi complessivi di formazione degli occupati), e specifica per i soggetti che,
spontaneamente, non riescono ad accedervi sono stati costruiti due consistenti
(in termini finanziari e di disegno di policy) provvedimenti: l’avvio
dei Fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua e la
realizzazione di un canale finanziario ad hoc per la riqualificazione dei
lavoratori svantaggiati e nelle microimprese. (2) I Fondi
interprofessionali rappresentano una novità di assoluto rilievo: le parti
sociali, come già avviene in molti paesi europei, si fanno carico della
programmazione e gestione della parte più consistente delle risorse finora
destinate al finanziamento delle politiche pubbliche di formazione continua. Per
rispondere alla domanda di formazione specifica degli occupati in condizione di
maggior debolezza sul mercato del lavoro, dal 2003 è stata implementata una
linea di intervento destinata a piani formativi aziendali e ad azioni a domanda
individuale rivolte ai lavoratori delle imprese private con meno di quindici
dipendenti; ai lavoratori a tempo parziale, a tempo determinato, con contratti
di collaborazione coordinata e continuativa o inseriti nelle tipologie
contrattuali previste dalla legge Biagi; ai lavoratori in cassa integrazione
guadagni ordinaria e straordinaria; ai lavoratori con età superiore ai
quarantacinque anni e a quelli in possesso del solo titolo di licenza elementare
o di istruzione obbligatoria e ai disoccupati.
Il ruolo strategico delle università
Infine, per agevolare la nuova funzione di orientamento al lavoro e un più
stretto raccordo con il mondo delle imprese, la riforma Biagi affida alle
università tre compiti centrali: il collocamento dei propri studenti,
l’apprendistato di alta formazione e la certificazione dei contratti di
lavoro. Attraverso questi strumenti sarà possibile fare del sistema
universitario il segmento strategico di una ben più complessa e articolata rete
di relazioni istituzionali che, sotto l’insegna della occupabilità, si
propone l’obiettivo di un reale dialogo tra Pa, organizzazioni rappresentative
degli interessi dei lavoratori e sistema economico e produttivo locale. Questa
pare in effetti la via privilegiata per superare il problema della dispersione
scolastica e garantire una rapida transizione dalla scuola al lavoro. Grazie
alla riforma del mercato del lavoro, le università italiane possono ora portare
a compimento i processi volti a rafforzare la coerenza tra formazione erogata e
fabbisogni del mercato. E questo anche attraverso una rinnovata competizione tra
gli atenei, basata sulla capacità di creare scuole e centri di eccellenza e di
attrarre ricercatori e studenti in ragione del prestigio che le singole sedi
universitarie sapranno conquistarsi sul campo attraverso la prospettiva
dell’inserimento nel mercato del lavoro. L’autonomia delle università –
non solo didattica, ma anche statutaria e finanziaria – ha costituito
indubbiamente una tappa decisiva nella prospettiva di una reale integrazione tra
percorsi universitari e politiche del lavoro. Ma essa è insufficiente se non si
creano, parallelamente, le condizioni per avvicinare nell’esperienza
quotidiana i singoli atenei al mondo delle imprese e al territorio circostante.
E questo è quello che è stato fatto con la riforma Biagi del mercato del
lavoro. Il quadro normativo e istituzionale che sino a oggi ha reso difficile la
transizione dalla scuola al lavoro è dunque profondamente cambiato e oggi
disponiamo della strumentazione necessaria per avvicinarci alle migliori
esperienze segnalate dalla esperienza comparata.
Per saperne di più
Centro Studi Internazionali e Comparati "Marco Biagi":
www.csmb.unimo.it
Aviana Bulgarelli: Direttore generale per la Formazione del ministero del
Lavoro e delle politiche sociali.
Michele Tiraboschi: Direttore Centro Studi Internazionali e Comparati
"Marco Biagi" – Università di Modena e Reggio Emilia
(1) Sui rapporti tra riforma Moratti e riforma Biagi
vedi. M. Sacconi, P. Reboani, M. Tiraboschi, La società attiva, Marsilio,
Venezia, 2004, specialmente il Capitolo 2.
(2) Cfr. A. Bulgarelli, "Verso una strategia di lifelong learning:
stato dell’arte e evoluzione delle politiche di formazione continua in
Italia", in Diritto delle Relazioni Industriali, 1/2004.
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