I costi della presenza militare in Iraq sfondano
il tetto di 350 miliardi di dollari, una cifra con cui si potrebbe
garantire l'istruzione universitaria a 16 milioni di persone. Demagogia?
Idealismo? I dati parlano da soli…
Superata ormai la soglia dei 350 miliardi di dollari, una somma
equivalente al Pil di un paese povero e segno di contraddizione di un
mondo che da una parte si dice sensibile verso i problemi del prossimo e
dall’altra investe quote sproporzionate in armamenti. Una responsabilità
che non esclude nessuno, perché le armi sono un affare che coinvolge
tutti e gli Stati Uniti sono solo una democrazia in cui non si ha paura
di portare certi dati alla luce del sole.
Il merito è del National Priorities Project, un’organizzazione
apartitica fondata nel 1983 con l’obiettivo di dare ai cittadini
americani gli strumenti per comprendere le politiche di spesa e la
gestione della cosa pubblica. L’ultima idea è stata quella di calcolare
in tempo reale i costi della guerra e la loro incidenza sulla vita
quotidiana. Da mesi, sul sito
Costofwar.com un
calcolatore avanza inesorabile al ritmo di duemila dollari al secondo,
comunicando con estrema ed eloquente freddezza come certe priorità
nazionali possano condizionare in profondità la soluzione di altre
emergenze interne e non.
Il NPP ricorda così che con 350 miliardi di dollari si potrebbe pagare
la scuola primaria a oltre 46 milioni di bambini, assumere 6 milioni
di insegnanti nel settore dell’istruzione pubblica, mantenere 16 milioni
di studenti all’università, costruire oltre 3 milioni di unità
abitative. Sul versante internazionale, il costo della missione avrebbe
potuto finanziare i programmi globali contro la fame per 15 anni e
contro l’Aids per 30, oltre che assicurare vaccinazioni ai bambini dei
Paesi in via di sviluppo per almeno 70 anni.
Di fronte a campagne di opinione di questo tipo il rischio di cadere
nella demagogia è altissimo, eppure ciò che sorprende è vedere come i
dati siano stati calcolati su base scientifica (tenendo conto dei
criteri fissati dal Congresso) e rappresentino un fatto su cui
confrontarsi. Costruire un mondo senza armi è forse un’utopia, ma non è
una follia chiedersi se ci sono margini per definire un equilibrio che
metta lo sviluppo al primo posto. Ad altre condizioni, le briciole
donate per affrontare lo tsunami o sostenere la ricerca rischiano di
fungere da anestetico, capace di distogliere l'attenzione da
atteggiamenti e politiche che da troppo tempo mettono l’uomo agli ultimi
posti. Nessuno escluso.
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