Sorride paziente William Warda mentre si cerca di
etichettarlo come curdo, arabo, sciita o sunnita. Lui, non
rientra negli schemi classici. Warda è un cristiano assiro,
come un milione d'altri iracheni, minoranza colta di un
Paese di 26 milioni di cittadini. “Per evitare queste
domande dovresti essere non un iracheno ma un gatto, come
dice Saad Khalifa, il nostro Beppe Grillo”, spiega Warda
che oggi dirige la tv Ashr, voce degli assiri. Ha
appena lasciato la direzione di un quotidiano di Bagdad,
Bahra, per fondarne uno sportivo, Goal.
“Abbiamo troppa stampa di partito, ci manca la stampa
libera” aggiunge Warda. E un giornale sportivo è anche un
segno del ritorno alla vita normale.
Ma quanto è lontana la normalità in Iraq?
“Molto lontana. La situazione della sicurezza è
disastrosa. Nel mirino di chi uccide ora non ci sono solo
politici, medici, professori, ma le persone qualunque. Ti
possono ammazzare al mercato, per la strada, dal barbiere.
Gli squadroni della morte sono ovunque, ti fermano anche
in pieno giorno. Chi può si è procurato documenti falsi e
se ti puntano un mitra mostri quello giusto: col nome
sciita se chi ti affronta è sciita, sunnita se è sunnita.
Portare i bambini a scuola è un incubo. La sorella di un
mio amico è stata bloccata con i suoi due gemellini: si è
salvata solo perché ha avuto l’accortezza di imporre loro
dei nomi “neutri” non tipici di una etnia o di un’altra.
Scuole e università sono deserte. Mi hanno offerto una
cattedra universitaria ma gli amici mi sconsigliano:
rischio il rapimento o peggio. Ormai quando usciamo di
casa non diciamo più ciao ma addio.”
Chi potrebbe attaccarla?
“Dipende, nessuno è sicuro. A chi potrei aver dato
fastidio? A uno o a dieci gruppi armati di una parte o
dell’altra. Vale per un politico o per un uomo d’affari e
tanto più per un giornalista. I partiti hanno milizie ben
armate. Nei primi tempi del dopo Saddam lo scontro era tra
loro, per il potere, dentro i palazzi del potere. Ora
colpisce tutti. La divisione etnica scende come un veleno
nella società e costringe all’appartenenza etnico-politica.
L’unica area ancora salva è all’interno della famiglia tra
i tanti matrimoni misti. Ma le vendette chiamano vendette
e l’odio si espande".
Non era così ai tempi di Saddam?
“No, perché il regime era uno e solo da uno dovevi
guardarti. Questo creava solidarietà. Le faccio un
esempio. In un quartiere di Bagdad c’erano due vicini di
casa, un sunnita e uno sciita. Il secondo era perseguitato
e il primo lo aiutava in ogni modo, lo proteggeva. Dopo
l’attentato alla moschea sciita di Samarra si sono
affrontati col kalashnikov. E’ finita la convivenza”
Per avere armi e milizie servono soldi. Da dove
vengono?
“Il finanziamento diretto viene da vecchie gestioni
corrotte del potere, dal contrabbando di petrolio che
richiede una grossa organizzazione di tipo mafioso e dai
rapimenti. Chiedono dai 50mila ai 200mila dollari per un
commerciante. Ne chiesero 250mila per il sacerdote che poi
fu sgozzato (viste le cifre, rapire un italiano è un vero
affare ndr)). E poi l’Iraq è ormai l’arena su cui
si affrontano i servizi segreti dei paesi vicini,
dall’Iran alla Siria al Kuwait. Ognuno foraggia i propri
“amici”. Si consumano perfino vendette legate alle guerre
degli anni Ottanta e Novanta”.
Ma i “vicini” hanno mire espansionistiche?
“No. Non proprio. Iran e Siria sono molto interessati
invece a destabilizzare il nostro paese per tenere gli
americani impantanati in Iraq, con una guerriglia
continua. Così gli Stati Uniti non possono occuparsi di
loro. Anzi sono stati ben attenti a non farsi coinvolgere
direttamente nel conflitto iracheno per non offrire
pretesti d’attacco”.
Anche gli analisti americani credono che le chiavi di
Bagdad siano a Teheran…
“In parte. Infatti gli americani hanno sostenuto il
premier Maliki sperando che agisse da iracheno più che da
sciita. Quando fallirà punteranno su altre soluzioni”
Quali?
“Un governo di unità nazionale con il vecchio premier
Allawi, che garantiva più equidistanza”.
Ma oggi il governo che cosa fa?
“Il governo sta nella zona verde di Bagdad. Non vede che
la gente viene ammazzata a sangue freddo sul marciapiede.
I parenti vanno all’obitorio, dove vengono portati 55
cadaveri al giorno. E se trovano il congiunto dicono anche
“meno male”. Mi chiedo tutti i giorni dove posso portare i
miei figli, dove andare a fare la spesa. Cambio strada
tutte le mattine. Siamo totalmente disperati”.
Insomma lo stato non esiste?
“No”
E che cosa vi aspettate?
“L’unica cosa che tiene gli iracheni pazienti è la
speranza remota che prima o poi la situazione si
aggiusterà perché gli Stati Uniti non possono uscire
dall’Iraq così sconfitti come oggi, salterebbe tutta la
loro strategia medio orientale. E quindi insisteranno per
ottenere il dialogo e la riconciliazione nazionale. Un
documento in questo senso è stato firmato alla Mecca, e il
luogo è molto solenne”
Può farcela in un anno il governo iracheno come dicono
gli Stati Uniti?
“Le date sono indicative, servono a fare pressione sul
governo che ha, comunque, buone intenzioni benché abbia di
fronte sfide maggiori delle proprie forze. Non ce la farà
di sicuro senza un forte sostegno interno, arabo e
internazionale. Tutti gli iracheni concordano che le forze
straniere non debbano andare via di colpo ma gradualmente
e che devono mantenere un certo controllo per ridare
sicurezza all’Iraq”.
Sicurezza è la prima necessità?
“Sicurezza e normalità. Pensi che a Karrada, uno dei
quartiere più martoriati di Bagdad l’ex capitano della
nazionale, Leif Hussein, ha fondato una scuola di calcio…”
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