Sacrifici per i ricchi, una maggiore
equità sociale con l’introduzione di un
sussidio per i disoccupati ed una idea
nuova di produzione e di consumo. Barack
Obama ha presentato così il piano di
bilancio del governo federale degli Stati
Uniti dove, tra gli altri provvedimenti
che l’amministrazione s’impegna a
prendere, è contenuto anche “un impegno
storico per la riforma della sanità”. Una
cosa è certa: a Washington la musica è
cambiata. Pur non nascondendo la
drammaticità del momento, il nuovo
presidente americano, nel presentare la
sua manovra per l’anno fiscale 2010,
promette di "offrire chiarezza su come
viene speso ogni singolo dollaro dei
contribuenti americani". Sembra passato un
secolo da quando G.W. Bush precipitava il
mondo intero nel disastro da cui oggi
questo è chiamato a risollevarsi.
Non è un quadro felice - e non potrebbe
esserlo - quello che emerge dal testo
della legge presentata ieri al Congresso
americano: il deficit degli Stati Uniti si
dovrebbe infatti attestare nel 2009 a
1.750 miliardi di dollari, il più alto dai
tempi della seconda guerra mondiale. Una
legge dai numeri difficilmente
comprensibili per paesi, come il nostro,
abituati a gridare al saccheggio per
manovre di risanamento dalle poche decine
di miliardi di euro. Un progetto di
bilancio decisamente ciclopico: 3.500
miliardi di dollari di spesa totale, 1.350
di solo disavanzo commerciale
(praticamente l'intero Prodotto Interno
italiano) e ben 318 miliardi di nuove
entrate fiscali imposte al reddito di chi
guadagna oltre 250 mila dollari l'anno,
per creare un fondo di riserva per la
futura copertura sanitaria universale, che
ammonta complessivamente 634 miliardi.
Numeri che, se compresi, mettono paura.
Lo stesso Obama ha tuttavia puntualmente
precisato l’impegno di dimezzare l’ormai
elefantiaco debito entro la fine del suo
primo mandato, nel gennaio 2013,
dichiarando, già oggi, l’identificazione
da parte del governo di risparmi per circa
2.000 miliardi di dollari. Il presidente
ha infatti citato, in particolare,
risparmi per quasi 50 miliardi
raggiungibili con la sola riduzione dei
sussidi eccessivi e degli sgravi fiscali
decisi dalla precedente amministrazione.
Più che un cambio di rotta, quella a cui
stiamo assistendo sembra essere, a tutti
gli effetti, una vera e propria inversione
ad U sulle principali tendenze circa le
voci macroeconomiche del bilancio USA.
L'inquilino della Casa Bianca ha infatti
parlato di “rinunce” per uscire dalla
crisi, in vista di “scelte difficili”:
“Dovremo rinunciare a cose che ci
piacciono ma che non ci possiamo
permettere”, ha detto il presidente,
spiegando inoltre che, anche a livello di
governo, “sarà necessario tagliare cose
che non ci servono per pagare quelle che
servono”, ovvero una grande riforma della
sanità, per estendere a tutti l'assistenza
pubblica, “anche tassando i più ricchi”.
Saranno interessati da questo
provvedimento tutti gli americani e tutte
le coppie sposate che guadagnano oltre
250.000 dollari. Per i contribuenti oltre
questa soglia, l'incidenza fiscale passerà
rispettivamente dal 35% e dal 33% al 39,6%
e al 36%.
Tradotto significa ripristinare lo status
quo ante rispetto le politiche fiscali
volute dal presidente Bush per rendere la
nazione capace di sostenere un serio
impegno sociale attraverso l’erogazione di
un sussidio, in vigore dal 26 febbraio,
che aiuterà sette milioni di americani,
che hanno perso il lavoro, a conservare la
mutua che avevano prima del licenziamento.
Ben altre parole rispetto alle
farneticazioni dei think-tank repubblicani
che descrivevano l’America post-bushista
come un paradiso popolato da soli
cittadini proprietari.
Quello che infatti si vuol far passare
sotto banco, minimizzandola come fosse una
mera sfumatura, è la critica dell’attuale
Presidente all’operato del suo
predecessore, primo artefice del disastro
economico, sociale e morale che sta
massacrando l’America e, con lei, tutte le
aree del pianeta che, loro malgrado, hanno
un’economia strettamente legata al
dollaro. Nella difesa del piano da lui
stesso fortissimamente sostenuto, Obama ha
infatti parlato di un bilancio corposo ma
anche “onesto”, sottolineando che “in
passato altri bilanci per anni non hanno
detto la verità”.
Un capitolo a parte nella legge di
bilancio è dedicato alle guerre. L’attuale
Comandante in Capo delle forze militari
USA non ha risparmiato sferzanti commenti
sull’operato dell'amministrazione Bush
sulle spese di guerra. “Questo budget
rivela i veri costi della guerra in Iraq”
ha detto il presidente Usa, ricordando la
confusione intenzionale creata dal
precedente inquilino della Casa Bianca sui
reali oneri sopportati dal paese per
finanziare le operazioni belliche nel
paese. Obama ha previsto per le guerre in
Iraq e in Afghanistan, dove intende
rafforzare la presenza militare americana,
spese pari a 130 miliardi di dollari nel
2010. Soldi che servono come l’acqua nel
deserto e che invece di dissetare il
moribondo sono stati bruciati e continuano
ad essere bruciati in una guerra
abominevole che - è bene continuare a
ricordarlo - è stata imposta in spregio
alle più elementari leggi del diritto
internazionale.
Se a questo disastro si aggiungono gli
altri 750 miliardi di dollari da mettere a
disposizione delle istituzioni finanziarie
travolte dalla crisi, ben si comprende
l’eredità lasciata dal presidente Bush e
dal suo manipolo di fanatici monetaristi
all’America e al mondo intero. Già, perché
l’aspetto più infame dell’attuale crisi
mondiale è proprio l’interdipendenza degli
stati a livello economico. I danni
prodotti dall’amministrazione repubblicana
hanno messo in ginocchio le economie di
tutto il mondo, ma se il disastro è
globalizzato altrettanto non potrà
accadere per la sua soluzione.
Bene faranno l’Europa, l’America Latina,
la Federazione Russa, la Cina, l’India, il
Giappone e le rimanenti potenze regionali
a ritornare saggiamente ad un’idea di una
comunità internazionale composta da tanti
stati aventi uguali diritti, ma differenti
doveri. Una comunità internazionale di
stati sovrani indipendenti dove non vi
sono né schiavi né padroni. In definitiva
tocca cestinare questi ultimi 8 anni,
riconoscere i colpevoli, ma rimboccarsi le
maniche e guardare avanti.
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