Il deficit degli Stati Uniti non consente di andare oltre le somme già
stanziate dal piano Tarp e da quelle che la nuova amministrazione pensa di
mettere in campo nel biennio 2009-2010? Intanto bisogna dire che la
contabilità pubblica Usa è più prudente di quella europea. E in ogni caso
non sarebbero sufficienti a rivitalizzare il sistema bancario e finanziario.
Sono i problemi che il neo-presidente deve affrontare subito.
Sembra prendere forma in questi giorni un nuovo “Washington
consensus”, secondo il quale la capacità di indebitamento
dell’amministrazione Usa è limitata. Sostanzialmente, si pensa che un
pieno utilizzo di ciò che resta dei fondi del piano Tarp varato
dall’amministrazione Bush, circa 650 miliardi di dollari, più un
pacchetto di provvedimenti da 850-1.000 miliardi di dollari per il
biennio 2009-2010 sia il limite superiore oggi dell’intervento di
politica fiscale negli Stati Uniti. È una visione che non può durare a
lungo perché dovrebbe essere ormai chiaro che anche l’intero
stanziamento del Tarp non è sufficiente per rivitalizzare il settore
finanziario.
Una delle ragioni per le quali i deficit Usa sembrano così grandi è
che la contabilità pubblica degli Stati Uniti è spesso più predente di
quella europea. L’elemento chiave da tenere a mente quando si leggono
i rapporti sui deficit fiscali Usa è che l’autorità ufficiale , il
Congressional Budget Office (Cbo) conteggia come “spesa” nell’anno
fiscale 2009, che va da settembre 2008 settembre 2009, il salvataggio
delle agenzie di finanziamento e garanzia dei mutui ipotecari, come
Fannie Mae e Freddie Mac, per un ammontare di 240 miliardi di dollari.
Inoltre, il Cbo calcola che l’elemento di sovvenzione nel Tarp sia di
circa il 25 per cento, che implica un’ulteriore spesa nominale per
l’anno fiscale 2009 di 180 miliardi di dollari. Le stime per il 2009
del Cbo destinano dunque 420 miliardi di dollari a capitoli che la
contabilità nazionale non considererebbe “spese”. Il pacchetto di
misure biennali preso in considerazione dalla nuova amministrazione
dovrebbe ammontare a circa 800-900 miliardi di dollari, ovvero 400-450
miliardi l’anno. Ciò significa che riportato a dati confrontabili con
quelli europei (più il pacchetto Obama, meno le spese per salvataggi
sui mercati finanziari), è probabile che il deficit federale degli
Stati Uniti sia vicino alla cifra prevista dal Cbo, ovvero l’8-9 per
cento del Pil. (vedi tabella)
Fonte: Cbo
IL TARP È SUFFICIENTE?
Anche una ricognizione sommaria dimostra come il costo fiscale,
definito come aumento del debito pubblico, di una crisi finanziaria
così diffusa come l’attuale, debba essere molto alto.
Crisi di questa portata costano di solito molte decine di punti
percentuali di Pil. Ma il totale dei fondi mesi a disposizione dal
Tarp è di soli 700 miliardi di dollari, circa il 5 per cento del Pil.
È troppo poco per far fronte alla più grave crisi degli ultimi
cinquanta anni.
Una cristi che ha contagiato l’intero mercato dei mutui americani e si
è estesa alla maggior parte delle altre forme di credito alle famiglie
(auto, carte credito, prestiti personali e così via), non può essere
risolta a buon mercato.
Il costo complessivo dove per forza essere molto superiore al 5 per
cento del Pil, se solo si considera che il debito complessivo delle
famiglie americane ammonta a circa 14mila miliardi di dollari, vale a
dire il 100 per cento del Pil. Con i prezzi delle case che
probabilmente scenderanno di un ulteriore 30 per cento (una stima
ragionevole se si considera che il rapporto prezzi-affitti è ancora
ben al di sopra dell’equilibrio a lungo termine) le perdite sui mutui
si attesteranno probabilmente tra il 20 e il 30 per cento. Si deve poi
tener presente che i mutui americani sono di fatto (e spesso di
diritto) “non rinegoziabili”, il che significa che il debitore può
limitarsi a mandare indietro le chiavi alla banca se il valore della
casa scende al di sotto della somma che ancora deve restituire. Con un
totale di mutui in sospeso di circa 10mila miliardi (70 per cento del
Pil), perdite del 20-30 per cento implicherebbero perdite per il
sistema finanziario di 3mila miliardi, vale a dire circa il 20 per
cento del Pil. A questo si dovrebbero aggiungere le perdite di circa
4mila miliardi di credito al consumo alle famiglie e altri debiti in
sospeso. Con una forte recessione in corso, l’insieme delle dei debiti
per le famiglie può essere considerevole. Il totale delle perdite del
solo sistema finanziario sui prestiti alle famiglie americane, deve
essere perciò superiore ai 3mila miliardi. Se il sistema bancario
americano e il sistema finanziario nel suo complesso vuole
riprendersi, deve riuscire a ripulirsi da queste perdite. Altrimenti
le banche non riprenderanno a erogare nuovamente credito. Qualsiasi
operazione che vuole ripulire il settore finanziario deve perciò
essere di almeno il 20-25 per cento del Pil. Questa è la dimensione
della sfida che deve affrontare il neo presidente Barack Obama.
Foto: da www.whitehouse.org
23/01/2009 L'EUROPA E OBAMA (Zaki Laidi, http://www.lavoce.info)
Una Commissione europea che sembra ormai l'ombra di se stessa. E un
informale direttorio di alcuni Stati membri, Francia in testa, che si notare
per il suo attivismo. E' una strategia che ha innegabili vantaggi in un
contesto in cui gli europei sono incapaci di definire posizioni comuni. Ma
ha un grave inconveniente: ritarda ulteriormente la realizzazione di una
vera politica comune. Per questo gli europei sembrano interessarsi di più a
ciò che Obama farà per loro piuttosto che a ciò che essi vogliono fare
insieme a Obama.
Cosa ha diritto di aspettarsi l’Europa dall’amministrazione
Obama? La risposta alla domanda ha un senso solo se,
prima, gli europei chiariscono a se stessi cosa vorrebbero dagli
Stati Uniti. E non è affatto scontato che gli europei abbiano le idee
chiare in proposito, dopo un anno ricco di avvenimenti e di
insegnamenti contraddittori.
CHI VINCE E CHI PERDE
Ricco di avvenimenti il 2008 lo è certo stato: crisi finanziaria,
crisi georgiana, stallo dell’economia, rapporti politico-economici
nuovamente tesi con la Russia a causa del gas. Come sempre, le crisi
rimescolano le carte del gioco europeo, creando vincitori e perdenti.
Chi vince è la Bce, che pure era stata oggetto di
innumerevoli critiche da parte di molti governi, tra cui quello
francese, e da parte di molti esperti. La accusavano di dogmatismo
ideologico, di cecità di fronte alla crisi economica o, più
generalmente, di totale mancanza di elasticità politica. Non vogliamo
infierire su coloro che invocavano a modello la Fed, reputando la Bce
troppo rigida. Non vogliamo farlo perché oramai è ben noto che è stato
proprio il lassismo della Fed a causare, in gran parte, il crollo del
sistema finanziario americano e che, per contro, è anche grazie al
rigore della Bce che l’Europa non è stata colpita da una crisi
finanziaria così grave.
Chi perde è indiscutibilmente la Commissione, ormai
divenuta l’ombra di se stessa, con la benedizione urbi et orbi del suo
presidente. La collegialità dell'istituzione è oramai puramente
formale. Unica preoccupazione dei commissari è quella di proteggere il
loro portafoglio, stabilendo tra loro patti di non-aggressione.
Il presidente della Commissione, dal canto suo stabilito, ha stretto
un altro patto con alcuni Stati membri, guarda caso i più potenti.
Spera, in cambio della sua manifesta docilità politica,
di ottenere un secondo mandato, sempre che nelle elezioni del giugno
2009 venga riconfermata una maggioranza di destra.
Come contropartita, ha permesso che si stabilisse un vero e proprio
direttorio degli Stati più importanti, magnificamente
rappresentato dal presidente della Repubblica francese, in occasione
della crisi georgiana e, più tardi, quando è esplosa la crisi
finanziaria.
Durante la crisi georgiana, il direttorio ha dato
prova di innegabile attivismo, anche se nei fatti, attivo è stato
soprattutto il primo console francese. Il quale ha letteralmente
ignorato l’opposizione degli americani, che evidentemente avrebbero
desiderato un’Europa pronta a confrontarsi con la Russia, senza
neanche fornire loro elementi concreti atti a supportare la scelta
europea. Merito di Nicolas Sarkozy è stato senza dubbio quello di
optare per una linea relativamente moderata nei confronti della
Russia, ignorando però l’opinione dei paesi dell’Europa centrale e
orientale, i quali, per atavico riflesso, vorrebbero sempre opporre a
Mosca un atteggiamento duro.
LA POLITICA DEL DIRETTORIO
Anche se l’attivismo del direttorio ha considerevolmente migliorato
l’immagine dell’Europa, dimostratasi capace di agire di fronte a una
crisi internazionale senza attendere obbligatoriamente
l’autorizzazione degli Stati Uniti, i risultati della sua azione
restano ambigui, per non dire limitati. Mosca ha conseguito tutti i
suoi obiettivi politici e le prospettive di un ritorno nel grembo
georgiano per l'Arkazia e l’Ossezia del Sud sembrano ormai fuori
portata. I negoziati di Ginevra sulla questione sono totalmente
bloccati, nell’indifferenza quasi generale. Ecco emergere i limiti non
solo dell’attivismo europeo, ma anche quelli del sarkozismo
diplomatico. Tutto si svolge sempre come se il presidente francese
volesse ottenere rapidamente alcuni primi risultati, salvo distogliere
la sua attenzione dal problema, quando non è più mediaticamente
vendibile. Lo si è già notato quando si trattava della Colombia, lo si
è notato quando si è trattato della Georgia, lo si nota ora che si
tratta di Gaza. Il presidente francese ha effettuato una missione in
Medio Oriente all’inizio dell’attacco israeliano. Da allora, si è
imposto il silenzio, anche se potrà sempre dire che in virtù
dell’iniziativa franco-israeliana si è arrivati al cessate il fuoco.
Decretato unilateralmente da Israele dopo aver raggiunto tutti i suoi
obiettivi.
La dinamica del direttorio corrisponde, in fondo, alla
visione francese dell’Europa. Ma c’è dell’altro. Ciò che
avviene attualmente in Ucraina a proposito del gas russo rivela bene
le nuove dinamiche. Dopo molte settimane in cui l’Unione Europea e la
Commissione sono state totalmente incapaci di avere una qualche
influenza su Russia e Ucraina, che si rinfacciavano le responsabilità
della crisi, si assiste questa volta a un abbozzo di possibile
soluzione, sotto forma di un direttorio energetico,
diretto non dagli Stati, ma dalle rispettive – e più potenti – società
energetiche.
È a questo punto evidente che la Russia tenta in
tutti i modi di impedire la formazione di un’espressione politica
comune degli europei, favorendo invece il dialogo diretto con i vari
Stati membri. Il che permette a Mosca di dividere meglio gli Stati
europei, ma soprattutto di marginalizzare quei paesi dell’Europa
centrale e orientale, che considera i suoi veri nemici in seno
all’Europa stessa. La Russia ama trattare con gli Stati. E sa che è
molto più facile, per lei, trattare con i grandi stati membri che non
con l’Unione Europea, specie se questi grandi stati hanno enormi
interessi sul gas russo.
Il punto di vista russo è comprensibilissimo. Non sappiamo se però
coincide con gli interessi di un’Europa che esalta solo a parole, ma
non nei fatti, la solidarietà energetica. Soprattutto perché i membri
del direttorio energetico appartengono tutti ai grandi stati membri,
ferocemente ostili a qualsiasi comunitarizzazione o liberalizzazione
della politica energetica. Ed è evidente come vi sia un nesso tra la
liberalizzazione dell’energia a livello comunitario e la solidarietà
energetica, anche se i grandi operatori europei lo negano ferocemente.
La strategia del direttorio presenta innegabili vantaggi in un
contesto in cui gli europei sono incapaci di definire
posizioni comuni. Ma presenta anche un grave inconveniente:
ritarda ulteriormente la realizzazione di una vera politica comune
europea. Ciò risulta particolarmente evidente allorché si discute di
immigrazione, a proposito della quale non si potrà certo ricorrere
all’intergovernalismo. …
Fatte tutte queste considerazioni, risulta chiaro perché gli europei
si interessino maggiormente a ciò che Obama farà per loro
piuttosto che a ciò che essi hanno voglia di fare con Obama.
(traduzione di Daniela Crocco)
Foto: José Manuel Barroso, presidente della
Commissione Europea, © European Community, 2009
* Il testo in lingua originale è pubblicato su
Telos.
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