Appena
a sud del Circolo polare artico c’era una volta un paese
povero, isolato geograficamente e culturalmente, la cui
scarsa popolazione (300.000 anime su un territorio di
circa 100.000 chilometri quadrati, un terzo di quello
italiano) sopravviveva grazie alla pesca del merluzzo.
Talmente disperata era la dipendenza dell’Islanda da
questa attività, che nel 1976 il suo governo decise di
estendere le proprie acque territoriali, dando così
origine a quella che è passata alla storia con il poco
fascinoso nome di “guerra del merluzzo” con la Gran
Bretagna (come vedremo, la tendenza dei politici islandesi
ad assumere decisioni unilaterali e non particolarmente
rispettose degli altrui interessi non si è sopita con il
tempo). Ebbene, in poco più di un decennio questo luogo
dimenticato da dio si è trasformato in una specie di
paradiso terrestre: vi si registrano un livello di reddito
pro-capite tra i più alti al mondo (cresciuto del 45% in
cinque anni, fino a raggiungere il quarto posto nella
statistica stilata dalle nazioni Unite nel 2007), sistemi
di istruzione e sanità pubblici completamente gratuiti,
fondi pensionistici finanziariamente robusti ed
efficienti.
Le statistiche dicono poi che gli Islandesi vivono a lungo
(età media maschile di poco inferiore agli 81 anni, il
terzo miglior dato al mondo), sono avidi lettori e vantano
un elevatissimo tasso di partecipazione femminile al mondo
del lavoro. Gli appassionati di complotti internazionali
sembrano convinti che la causa dell’esplosivo sviluppo
dell’economia e della finanza islandese degli ultimi anni
sia da ricercarsi in non meglio precisati ed assai poco
trasparenti legami di alcuni imprenditori locali con la
Federazione Russa: ad alimentare questi sospetti le gesta
di Thor Björgólfsson, classe 1967, rampollo di una
famiglia molto chiacchierata: questi, dopo aver venduto
alla Heineken la sua fabbrica di birra di San Pietroburgo
(100 milioni di dollari di profitti), ha fondato nella
natia Islanda la Actavis, oggi quarto produttore mondiale
di farmaci generici.
Se è vero che, come suggerisce il Presidente islandese
Ólafur Ragnar Grímsson, “l’avvento della globalizzazione e
l’abbattimento generalizzato di vincoli al commercio
estero e al controllo dei capitali, rafforzato dalla
innovazioni informatiche e tecnologiche hanno reso
irrilevante l’isolamento geografico islandese”, i motori
del recente boom islandese sono il suo sistema
pensionistico, gonfio di denaro e con una buona
propensione agli investimenti azionari, e l’industria per
l’estrazione dell’alluminio, che oggi vale più di quella
ittica.
Inoltre, nel corso degli ultimi cinque anni, le banche e i
fondi islandesi, pilotate da un manipolo di trentenni
rampanti, freschi di business school estere, hanno
dimostrato atteggiamento molto aggressivo e grande voglia
di crescere all’estero, in particolare in Gran Bretagna.
La Kaupthing, che nella classifica delle istituzioni
finanziarie internazionali potrà anche essere considerata
una banca non importantissima (124-esimo posto), ha però
realizzato operazioni in Gran Bretagna per l’equivalente
di circa cinque miliardi di euro; ha finanziato il fondo
islandese Baugur, che detiene partecipazioni azionarie in
importanti catene distributive al dettaglio inglesi (Hamleys,
House of Fraser, Oasis, Debenhams, Iceland); ha investito
pesantemente nel mercato immobiliare londinese e ha
acquistato per 547 milioni di sterline un’antica banca
d’affari britannica, la Singer & Friedlander.
A sostenere la fase crescente della parabola della
Kaupthing, la bolla del mercato azionario e il costo
moderato del debito. Alle critiche della agenzie di
rating, che, pur non essendo particolarmente acute e
vigili, avevano messo in guardia gli investitori da un
modello di business pericoloso, le banche islandesi
risposero indirizzando la loro provvista verso il mercato
al dettaglio, in particolare quello veicolato attraverso
internet: ecco come nascono IceSave e Kaupthing Edge,
banche internet rispettivamente della Landsbanki e della
Kaupthing.
Con il deprezzamento della corona islandese, che da un
lato sottraeva valore alle attività reali in Islanda,
gonfiando il valore dei debiti in divisa contratti
all’estero, il sistema bancario islandese ha cominciato a
scricchiolare; quando le banche internazionali hanno
cominciato a chiudere i rubinetti del credito (il
cosiddetto credit-crunch) il Governo islandese è stato
costretto a nazionalizzare una dopo l’altre le tre banche.
Poiché la Kaupthing, come anche la Landsbanki, avevano
diverse migliaia di clienti in Gran Bretagna, il governo
britannico ha congelato le attività del braccio britannico
della Kaupthing Singer & Friedlander, cosa che, secondo il
primo ministro islandese, ha contribuito al suo
fallimento.
IceSave invece, a differenza della concorrente Kaupthing
Edge, pur non avendo sede in Gran Bretagna vi operava
mediante “passaporto” islandese; un sistema secondo cui
un’istituzione regolamentata nel paese di origine è
automaticamente autorizzata ad operare anche nel paese di
destinazione. Una forma di tutela molto debole, dato che
non è detto che i risparmiatori conoscano le normative
bancarie del paese di origine della loro banca; inoltre,
la tutela potrebbe essere più bassa di quella prevista nel
paese ospite. Ai clienti inglesi di IceSave (circa
300.000, un numero pari agli abitanti dell’intera Islanda)
sarebbe dunque spettata la protezione prevista dalla legge
islandese (garanzia sui depositi fino a 20.000 euro);
tuttavia il Governo islandese, non nuovo ad alzate di
testa disperate ed autodistruttive, ha dichiarato di voler
proteggere i soli clienti islandesi, disinteressandosi di
quelli britannici.
Così il Governo britannico ha dovuto farsi avanti e
garantire i suoi cittadini a rischio di truffa, congelando
nel contempo i fondi di IceSave nell’unico modo possibile:
ricorrendo ad una legge anti-terrorismo che a rigore
farebbe dell’intera Islanda uno stato-canaglia. Di qui una
grave crisi diplomatica tra l’Islanda e il Regno Unito,
deciso a tutelare ad ogni costo, oltre agli interessi dei
suoi cittadini, quelli degli oltre cento tra comuni,
autorità di polizia e dei pompieri inglesi che, avendo
investito la propria liquidità in IceSave, ci hanno
rimesso circa 800 milioni di sterline.
Quando sono arrivati i fallimenti e le nazionalizzazioni,
il paese si è risvegliato dal suo delirio, per ritrovarsi
davanti agli occhi un sistema finanziario oberato da 100
miliardi di dollari a fronte di un prodotto interno lordo
di soli 14 miliardi di dollari. Inevitabile l’intervento
del Fondo Monetario Internazionale che, come contropartita
ad un finanziamento di due miliardi di Euro, ha preteso un
rialzo dei tassi interbancari dal 6% al 18%; misura
praticamente inevitabile in un paese cui il drastico
deprezzamento della divisa ha prodotto un tasso di
un’inflazione del 15%.
Non è però solo la turbo-finanza a spingere la
neo-benestante Islanda sull’orlo del baratro: in un bell’articolo
pubblicato qualche giorno fa dal quotidiano britannico
The Times, infatti, la cantante islandese Björk
prende una posizione netta contro il progetto di
realizzare nel suo paese due nuovi impianti di produzione
di alluminio, che dovrebbero affiancarsi ai tre esistenti.
Le accresciute necessità di energia elettrica renderebbero
inevitabile la costruzione di nuovi impianti geotermici e
la realizzazione di nuove dighe, con effetti devastanti su
una natura del tutto incontaminata, con le sue fonti di
acqua calda e le meravigliose sculture naturali realizzate
dalla lava solidificata e ricoperta di uno strato di
muschio che ne fa uno spettacolo unico al mondo.
Paradossalmente, l’attuale crisi finanziaria viene
invocata nel Parlamento islandese come pretesto per
accelerare sulla realizzazione dei nuovi impianti,
liquidando come un impaccio inopportuno ogni valutazione
sull’impatto ambientale delle nuove opere: non a caso,
sembra che le multinazionali del settore estrattivo Alcoa
e Rio Tinto, possano contare sull’”amicizia” di diversi
deputati del parlamento di Reykjavík.
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