La redazione del The New York Times
L'iperbole
è la moneta delle campagne presidenziali, ma
quest'anno il futuro della nazione è veramente
in gioco. Gli otto anni di fallimentare guida
del Presidente Bush stanno facendo sprofondare
gli Stati Uniti. Bush sta caricando sulle spalle
del suo successore due guerre, un'immagine
internazionale sfregiata e un governo
sistematicamente deprivato della sua capacità di
proteggere i propri cittadini, stiano essi
scappando dalle inondazioni di un uragano o
cercando un'assistenza sanitaria alla propria
portata o lottando per tenersi la propria casa,
il proprio lavoro, i propri risparmi o la
pensione, nel mezzo di una crisi finanziaria che
si poteva prevedere e prevenire. Ma anche se i
tempi sono difficili, la scelta di un nuovo
presidente è facile. Dopo quasi due anni di una
campagna brutta e rancorosa, il Senatore
dell'Illinois Barack Obama ha dimostrato di
essere la scelta giusta per il 44esimo
presidente degli Stati Uniti.
Obama ha affrontato le sfide una dopo l'altra,
crescendo come leader e trasformando le sue
promesse iniziali di speranza e cambiamento in
un vero progetto. Ha mostrato di avere nervi
saldi e ferma capacità di giudizio. Crediamo che
abbia la volontà e l'abilità di creare quel
vasto consenso politico, necessario per trovare
le soluzioni ai problemi di questo paese.
Allo stesso tempo, il Senatore dell'Arizona John
McCain si è ritirato sempre più tra i meandri
della politica spiccia, basando la sua campagna
sulla divisione settaria, sulla guerra di classe
e persino su spunti razzisti. La sua visione del
mondo e le sue proposte fanno parte del passato.
La sua selezione di un vicepresidente così
evidentemente inidoneo per la carica è stato
l'atto finale di opportunismo e cattivo
giudizio, che ha fatto passare in secondo piano
i risultati dei suoi 26 anni passati al
Congresso.
Data la natura particolarmente odiosa della
campagna di McCain, la spinta a scegliere sulla
scia delle forti emozioni è pressante. Ma è più
saggio guardare in profondità alle malattie
dell'America di oggi e alle cure che i candidati
propongono. Le differenze sono profonde. McCain
offre ancora quell'ideologia repubblicana
dell'ognuno per sé, che giace in rovina di
fronte a Wall Street e nei conti correnti degli
americani. Obama ha una visione diversa del
governo e delle sue responsabilità.
Nel suo discorso alla Convention Democratica di
Denver, Obama disse, “Il governo non può
risolvere tutti i nostri problemi, ma dovrebbe
fare quello che noi non riusciamo a fare da
soli: proteggerci dal pericolo e dare la
possibilità ad ogni bambino di studiare;
assicurare acqua pulita e giocattoli sicuri;
investire in nuove scuole e nuove strade e nuova
scienza e tecnologia.” Durante la crisi
finanziaria, ha puntato il dito a ragione contro
l'abbietto fallimento dei controlli governativi
che ha portato i mercati sull'orlo del collasso.
L'economia
Il sistema finanziario americano è la vittima
della decennale politica repubblicana di
deregulation e tagli fiscali. Quelle strategie
si sono dimostrate sbagliate ad un prezzo
incalcolabile, ma McCain - che si definisce un
“soldato della rivoluzione reaganiana” - ci
crede ancora. Secondo Obama è necessaria una
profonda opera riformatrice per proteggere gli
americani e il loro lavoro.
McCain parla spesso di riforme, ma la sua
visione è parziale. La sua risposta a tutte le
crisi economiche è tagliare le spese che
beneficiano i lobbisti - circa diciotto miliardi
su tre trilioni di dollari di bilancio -
tagliare le tasse e aspettare che i mercati
liberi dai lacci risolvano il problema.
Per Obama è chiaro che il sistema fiscale
nazionale deve essere cambiato, per renderlo più
giusto. Questo significa che quegli americani
ricchi che si sono avvantaggiati in maniera
esagerata dei tagli fiscali di Bush devono
pagare un po' di più. I lavoratori, che hanno
visto il loro tenore di vita sprofondare e le
speranze dei loro figli restringersi, ne
trarranno vantaggio. Obama vuole alzare il
salario minimo e legarlo all'inflazione,
ricreare un clima in cui i lavoratori possono
organizzarsi in sindacati ed espandere le
opportunità scolastiche.
McCain, che un tempo condannava i tagli fiscali
del Presidente Bush perché irresponsabili, ora
vuole renderli permanenti. Mentre parla di
tenere le tasse al minimo per tutti, chi godrà
maggiormente dei benefici sarà l'un per cento
più ricco della popolazione, mentre il paese si
troverà ad affrontare un buco di bilancio.
Sicurezza Nazionale
Il soldati e le infrastrutture dell'esercito
americano sono dislocate su un territorio
pericolosamente troppo ampio. Bush ha trascurato
la necessaria guerra in Afghanistan, che ora
minaccia di precipitare nella sconfitta. La
guerra in Iraq, inutile ed estremamente costosa,
deve essere chiusa al più presto e in modo
responsabile.
Mentre i leader iracheni insistono in un rapido
ridimensionamento delle truppe americane e
chiedono di fissare una data per il ritiro,
McCain parla ancora di “vittoria”, senza ben
specificare cosa intende. Di conseguenza, non
offre alcun piano per riportare a casa le nostre
truppe e limitare altri danni all'Iraq e ai suoi
vicini.
Obama si è opposto alla guerra in Iraq fin
dall'inizio e con argomenti ponderati, e ha
proposto un piano militare e diplomatico per il
ritiro. Ha anche ricordato che finché il
Pentagono non comincerà a ritirare truppe
dall'Iraq, non ci saranno abbastanza soldati per
sconfiggere i Talebani e Al Qaeda in
Afghanistan. McCain, come Bush, si è occupato
soltanto superficialmente della pericolosa
escalation in Afghanistan e della minaccia che
anche il vicino Pakistan sprofondi nel baratro.
Obama dovrà certamente fare esperienza in
politica estera, ma ha già dimostrato di avere
le idee più chiare del suo avversario su questi
temi cruciali. La sua scelta di Joe Biden come
vicepresidente, forte della sua provata
conoscenza degli affari internazionali, è un
altro segno della sua capacità di giudizio. Il
noto interesse di McCain per la politica estera
e per i pericoli che il nostro paese sta ora
affrontando rende la sua scelta del Governatore
dell'Alaska Sarah Palin ancora più
irresponsabile.
Entrambi i candidati dicono di voler rafforzare
le alleanze in Europa e in Asia, inclusa la
NATO, e appoggiano fortemente Israele. Entrambi
i candidati dicono di voler ricostruire
l'immagine dell'America nel mondo. Ma ci sembra
chiaro che Obama ha più probabilità di farlo — e
non solo perché il primo presidente nero
mostrerà una nuova faccia americana al resto del
mondo.
Obama vuole riformare le Nazioni Unite, mentre
McCain vuole creare una nuova entità, la Lega
delle Democrazie, una mossa che inciterà ancor
di più la rabbia anti—Americana nel resto del
mondo.
Come Bush, sfortunatamente McCain considera il
mondo diviso in due: gli amici (come la Georgia)
e gli avversari (come la Russia). Ha proposto di
espellere la Russia dal G8 persino prima
dell'invasione della Georgia. Non proviamo
simpatia per l'arroganza russa, ma allo stesso
tempo non proviamo nessuna nostalgia per la
guerra fredda. Gli Stati Uniti dovranno trovare
un modo per circoscrivere le peggiori pulsioni
dei russi, cercando di mantenere l'abilità di
lavorare insieme a loro sulla non-proliferazione
e altre iniziative vitali.
Entrambi i candidati sono duri contro il
terrorismo, e nessuno dei due ha accantonato
l'ipotesi di un'azione militare per fermare il
programma nucleare iraniano. Ma Obama ha
proposto un serio tentativo di convincere
Teheran ad abbandonare le sue ambizioni nucleari
attraverso aperture diplomatiche e sanzioni più
dure. La propensione di McCain a scherzare
sull'attacco all'Iran fa paura.
La Costituzione e il sistema legale
Sotto Bush e il vicepresidente Dick Cheney, la
Costituzione, la Carta dei Diritti, il sistema
giudiziario e la separazione dei poteri sono
stati sotto costante attacco. Bush ha scelto di
sfruttare la tragedia dell'11 Settembre, il
momento in cui sembrava il presidente di una
nazione finalmente unita, per cercare di porsi
al di sopra della legge.
Bush si è arrogato il potere di imprigionare
uomini senza accuse e ha costretto un Congresso
umiliato a dargli l'autorità e l'impunità per
spiare gli americani. Ha creato un numero
imprecisato di attività clandestine, incluse
prigioni segrete, e ha appaltato la tortura ai
privati. Il presidente ha firmato centinaia, se
non migliaia, di ordini segreti. Temiamo che ci
vorranno anni di ricerche legali per scoprire
quanti diritti fondamentali sono stati violati.
Entrambi i candidati hanno rinunciato alla
tortura e si sono impegnati a chiudere il campo
di prigionia nella Baia di Guantanamo a Cuba. Ma
Obama si è spinto oltre, promettendo di trovare
e correggere gli attacchi di Bush al sistema
democratico. McCain è rimasto in silenzio
sull'argomento.
McCain ampliò i diritti dei detenuti. Ma poi ha
aiutato la Casa Bianca ad approvare il Military
Commisions Act del 2006, che nega ai detenuti il
diritto ad un'audizione in un vero tribunale e
mette Washington in conflitto con la Convenzione
di Ginevra e aumenta i rischi per le truppe
americane.
Il prossimo presidente avrà la possibilità di
nominare uno o più giudici alla Corte Suprema,
che sta per essere dominata dalla destra
radicale. Obama potrebbe nominare giudici meno
liberali di quelli che i suoi simpatizzanti
vorrebbero, ma McCain sicuramente sceglierà
rigidi ideologi. Ha dichiarato che non nominerà
mai giudici che credono nel diritto riproduttivo
delle donne.
I Candidati
Lo sforzo di riportare la nazione alla
situazione precedente all'amministrazione Bush,
di iniziare a ricostruire la sua immagine nel
mondo e di restaurare la sua autostima e il
rispetto per se stessa, questo sforzo
rappresenta da solo un'enorme sfida. Per far
questo e guardare avanti, servirà una volontà
forte, carattere e intelligenza, capacità di
giudizio e una mano ferma e salda.
Obama possiede tutte queste qualità in
abbondanza. Guardarlo mentre la campagna
presidenziale lo metteva a dura prova ha
cancellato le nostre riserve, che durante le
primarie democratiche ci avevano spinto ad
appoggiare la candidatura del Senatore Hillary
Rodham Clinton. Obama ha mobilitato legioni di
nuovi elettori con il suo messaggio di speranza
e opportunità per tutti e la sua chiamata alla
responsabilità sociale e alla condivisione dei
sacrifici.
McCain, che avevamo scelto come migliore
candidato repubblicano durante le primarie, ha
dilapidato la sua reputazione di saggezza e
integrità per placare le pretese dell'estrema
destra. La sua giusta denuncia di essere stato
eliminato dalle primarie del 2000 grazie ad
un'onda razzista che prese di mira la sua figlia
adottiva è stata sostituita dall'adesione fedele
alle stesse tattiche di vittoria a tutti i costi
e alla scelta di quello stesso staff per la
campagna elettorale.
Ha perso la sua statura di pensatore
indipendente nella sua rincorsa alle fallite
politiche fiscali di Bush e ha abbandonato la
sua posizione all'avanguardia sul riscaldamento
globale e sulla riforma dell'immigrazione.
McCain avrebbe potuto mantenere le sue posizioni
avanzate sull'energia e sull'ambiente.
All'inizio della sua carriera, presentò la prima
legge credibile di controllo delle emissioni di
gas serra in America. Ora le sue posizioni sono
la caricatura di quelle antiche scelte: basti
pensare all'inno di Ms. Palin “Drill, baby,
drill!” (trivella, bambina, trivella!). Obama ha
appoggiato alcune trivellazioni off-shore, ma
all'interno di una strategia complessiva di
grandi investimenti in nuove tecnologie pulite.
Obama ha resistito alla più dura campagna mai
orchestrata contro un candidato alla presidenza.
È stato chiamato anti-americano e accusato di
nascondere una segreta fede islamica. I
repubblicani lo hanno accostato a terroristi
interni e hanno messo in dubbio l'amore per la
patria di sua moglie. Sarah Palin si è spinta
fino a mettere in dubbio il patriottismo di
milioni di americani, chiamando gli stati
repubblicani “pro-America.”
Questa tattica di paura, divisione e calunnie
costò l'eliminazione di McCain da parte di Bush
nelle primarie repubblicane nel 2000 e la
sconfitta del Senatore John Kerry nel 2004. È
stato il tema principale della presidenza
fallimentare di Bush.
I problemi della nazione sono semplicemente
troppo profondi per essere ridotti alle
fastidiose “robo-calls” e agli spot denigratori.
Questo paese ha bisogno di una guida sensibile,
di una guida compassionevole, di una guida
onesta e di una guida forte. Barack Obama ha
dimostrato di possedere tutte queste qualità.
26/10/2008 McCain e il voto cattolico (Michele Paris, http://altrenotizie.org/alt)
La
possibile diversa spartizione del voto cattolico nelle
imminenti presidenziali americane rispetto al 2004 è
un’altra delle tante eredità negative che
l’amministrazione Bush ha lasciato quest’anno al candidato
repubblicano alla Casa Bianca John McCain. Anche se
tradizionalmente schierati in grande maggioranza a favore
dei democratici, gli elettori cattolici americani avevano
in realtà contribuito in maniera fondamentale alla
vittoria repubblicana quattro anni fa, facendo spostare
l’ago della bilancia verso il presidente in carica in una
manciata di stati chiave. I cattolici negli Stati Uniti
costituiscono circa un quarto dell’intero corpo
elettorale, ma la loro presenza si concentra per lo più in
alcune aree del paese strategicamente importanti nell’Election
Day. In stati come Michigan, Pennsylvania, Missouri e Ohio
– stati che complessivamente assegnano 69 voti elettorali
e, in particolare gli ultimi due, ancora in bilico tra
Obama e McCain – l’elettorato cattolico ammonta infatti a
circa un terzo dei votanti. Senza contare poi la
popolazione cattolica di origine ispanica estremamente
numerosa in altri quattro “swing states” come Colorado,
Florida, Nevada e New Mexico.
All’indomani delle elezioni del 2004, i cattolici
democratici e progressisti avevano iniziato a costruire
un’organizzazione che ben presto ha raggiunto i livelli di
energia mostrati da quelli conservatori. A determinare lo
spostamento favorevole a Bush in quell’anno era stato
sostanzialmente un manipolo di vescovi che alla vigilia
delle presidenziali aveva contribuito a influenzare la
maggioranza dei votanti cattolici, concentrando le
critiche della chiesa verso il senatore democratico John
Kerry praticamente su un unico argomento, l’aborto. In
molte parrocchie aveva inoltre iniziato a circolare una
sorta di guida al voto (chiamata “Catholic Answers”),
nella quale si elencavano le cinque tematiche non
negoziabili nella scelta del candidato da appoggiare:
ricerca sulle cellule staminali, clonazione, eutanasia,
matrimoni omosessuali e aborto.
Già due anni più tardi erano cominciati a giungere però i
primi risultati confortanti per i democratici. La
conferenza dei vescovi americani aveva infatti vietato
ogni genere di guida da destinare agli elettori delle
parrocchie e nell’autunno del 2007 era stata poi rivista
la posizione della Chiesa cattolica in merito alla
necessaria individuazione di posizioni condivise da parte
di un candidato su certi argomenti, con la conseguente
libertà concessa agli elettori di votare per un politico
favorevole all’aborto se vi erano altri fondati motivi per
farlo. L’inversione di rotta forniva ampio spazio agli
attivisti democratici per tornare ad estendere la propria
influenza nel mondo cattolico statunitense e per
presentare i programmi sociali adottati dal partito come
una strada efficace per ridurre il ricorso all’aborto.
L’approccio cattolico ai vari candidati così è cambiato
totalmente. Gli elettori hanno iniziato a scorgere un
percorso comune con il Partito Democratico sui temi del
razzismo, della tortura, dell’immigrazione,
dell’assistenza sanitaria, della guerra, nonché
recentemente dell’economia e degli effetti della crisi
sulle fasce sociali più deboli. Tutto ciò ha determinato
un chiaro spostamento dei cattolici, i quali secondo i più
recenti sondaggi sembrano premiare Barack Obama molto più
di quanto non fecero con Kerry nel 2004. Quattro anni fa
il senatore democratico dell’Illinois era riuscito a
conquistare il 47% dei voti cattolici, a fronte del 52%
del metodista George W. Bush. Le più ottimistiche
rilevazioni statistiche attuali assegnano invece fino al
55% dei consensi dei cattolici a Obama contro il 35% di
John McCain, mentre le più caute indicano una situazione
di sostanziale parità, situazione quest’ultima che sarebbe
comunque sufficiente a permettere un’affermazione
democratica in alcuni stati in bilico.
Se da un lato l’annunciata evoluzione del comportamento
degli elettori cattolici non fa che conformarsi a quella
generale delle altre comunità, frustrate dalla situazione
economica e dalle scelte dell’amministrazione Bush, il
dibattito all’interno del mondo cattolico americano è
indubbiamente caratterizzato in questi ultimi anni anche
da un ripensamento intorno alle priorità da assegnare
nella definizione del proprio modo di vivere il rapporto
con la religione e, di conseguenza, alle scelte politiche
che ne derivano.
Le strada per Obama non si presenta tuttavia completamente
in discesa per quanto riguarda l’appello agli elettori
cattolici. Nel corso delle primarie democratiche, il voto
cattolico era infatti andato in gran parte alla sua rivale
Hillary Clinton, specialmente nelle contee e negli stati
dove massiccia era la presenza operaia. La condanna
esplicita poi di alcuni vescovi cattolici di esponenti
democratici di spicco, come quelle dirette nelle ultime
settimane alla speaker della Camera dei Rappresentanti
Nancy Pelosi e allo stesso candidato alla vice-presidenza
Joseph Biden, accusati di andare contro la dottrina della
Chiesa sul tema dell’aborto, hanno poi alimentato i dubbi
dei cattolici più conservatori, già animati da un
ritrovato entusiasmo in seguito alla scelta di Sarah Palin
come running-mate di McCain.
La presenza di Biden nel ticket democratico ha d’altro
canto influito in maniera positiva nell’allargare il
consenso dei cattolici per il senatore dell’Illinois,
specialmente tra la working-class della nativa
Pennsylvania. Un compito quest’ultimo affidato anche al
lavoro delle organizzazioni sindacali, facilitate dalla
recessione economica incombente nell’evidenziare la
vicinanza di molte istanze della dottrina cattolica alle
posizioni più liberal del Partito Democratico. Tra i
cattolici bianchi delle cittadine operaie del Midwest e
tra gli ispanici del sud-ovest un altro fattore da
misurare per il possibile successo di Obama sarà però
anche quello razziale.
La storica elezione del primo presidente di colore negli
Stati Uniti potrebbe così dipendere in definitiva dalle
scelte che opereranno in novembre alcune minoranze di
elettori, magari in alcuni singoli stati, come appunto i
cattolici in Ohio o in Pennsylvania – ma anche gli
ispanici in Florida o in New Mexico, gli ebrei sempre in
Florida, gli indipendenti in New Hampshire o in Missouri,
i repubblicani delusi in Virginia o in North Carolina – e
da quanto e in che modo influirà su di loro quella
combinazione di fattori che ha dominato la campagna
elettorale per la Casa Bianca fin dall’inizio: crisi
economica, guerra in Iraq, sicurezza nazionale,
amministrazione Bush, questione razziale.
25/10/2008 Il popolo di Obama (Luca Mazzucato, http://altrenotizie.org/alt)
NEW
YORK. Jerry e Martha insegnano spagnolo in un college
di Long Island, la lunghissima isola alle porte di New
York. Sono le nove di sera alla sede locale del partito
democratico, persino dopo un pomeriggio di campagna
elettorale Jerry ha ancora l'entusiasmo del ragazzino:
“Queste elezioni sono diverse, sta finalmente nascendo un
nuovo movimento. Questa è la campagna più importante da
una generazione a questa parte”. Jerry ha partecipato
attivamente a tutte le elezioni dagli anni sessanta, ma
non ha mai visto tanta mobilitazione popolare. Sua moglie
Martha, in pensione da pochi mesi, è appena tornata da una
settimana di febbrile campagna in Pennsylvania, uno dei
famigerati “swing states”. “Ci siamo già stati un mese fa
insieme - mi spiega Jerry - abbiamo fatto il giro delle
comunità dei latinos, passando porta a porta per
registrarli a votare, ma per lei è una missione”.
Molti tra i latinos non parlano inglese, ecco perché i due
attivisti sono una risorsa preziosa. “Quando bussiamo alla
porta, la famiglia dentro casa pensa, cosa ci fanno due
gringos sul nostro vialetto? Ma noi gli parliamo in
spagnolo e loro socchiudono la porta... Così riusciamo ad
avere la loro fiducia.” Jerry racconta che, dopo poche ore
all'interno di una piccola comunità messicana, diventano
la mascotte del quartiere e tutti vogliono parlare con
loro. In questo modo riescono a raggiungere e coinvolgere
nella campagna centinaia di persone, che altrimenti
resterebbero escluse dal gioco elettorale. L'ultima
settimana, Martha ha visitato una zona sperduta della
Pennsylvania settentrionale. Un'insegnante del liceo
locale ha aperto le porte di casa sua ad una dozzina di
attivisti provenienti da tutto il paese, che l'hanno usata
come campo base per registrare elettori nelle zone rurali.
Storie come questa sono all'ordine del giorno tra i
volontari della campagna “Barack Obama for President”. In
una recente intervista, Michelle Obama ha spiegato che una
vastissima partecipazione popolare è necessaria per
intraprendere una vera strada di cambiamento: “Non basta
vincere le elezioni, serve una larga vittoria per
rifondare la democrazia in questo paese.” Anche se la
campagna sta per sfondare la cifra record del mezzo
miliardo di dollari (McCain è fermo a quota 230 milioni),
la maggior parte dei fondi sono spesi negli spot
pubblicitari, che inondano a tappeto le tv via cavo,
battendo il rivale in un rapporto di quattro a uno. Il
lavoro sul campo è svolto invece da un esercito di
volontari, che percorre la nazione in lungo e in largo per
registrare più elettori possibili.
Il particolare sistema elettorale americano fa in modo che
tutti gli sforzi elettorali dei candidati si concentrino
su quella manciata di “swing states”, le cui sorti
decreteranno il vincitore: i soliti Ohio, Florida e
Pennsylvania, ma per la prima volta anche Missouri,
Virginia e Colorado (per la prima volta in ballo, dopo
decenni di egemonia repubblicana). Nello stato di New York
i democratici sono ampiamente in vantaggio, come di
tradizione nella East Coast, e i segni della campagna sono
pochi: tutti gli sforzi locali sono rivolti altrove.
All'interno della sede di Long Island, gli attivisti
democratici, una ventina in tutto, passano i pomeriggi al
telefono. La battaglia per la presidenza attraversa il
paese trasversalmente lungo le linee telefoniche. Gli
attivisti tengono in mano pacchi di fogli stampati con gli
elenchi degli elettori della Pennsylvania, registrati come
indipendenti; e i loro telefoni di casa. Li chiamano uno
per uno: per convincerli a sostenere Obama, in caso siano
indecisi; per ricordargli di recarsi alle urne, in caso
supportino già il candidato; per augurare la buonanotte,
se risponde un repubblicano. Ogni tanto qualcuno racconta
ad alta voce la sua ultima conversazione e le storie buffe
non mancano.
Un ragazzino brufoloso di sedicini anni è sconvolto dalla
signora al telefono, che continua a ripetere “non lo
voterò mai, è un terrorista!” In un altro caso, al
telefono risponde la domestica messicana, entusiasta
sostenitrice di Obama. “Mi può passare la signora, per
favore?” chiede il ragazzo. “Certo,” risponde la domestica
con un sospiro, “ma guardi che quella vota McCain.”. Un
uomo d'affari sui trentacinque anni, in completo elegante
con gemelli d'oro ai polsi, è alla sua prima esperienza,
mentre un vecchio militante un po' sgangherato gli spiega
come condurre la conversazione. In pochi minuti, tutti
stanno ad ascoltarlo mentre riesce a convincere un paio di
indecisi col trucco del “ero repubblicano, sa, ma McCain
mi ha costretto a cambiare idea!” Due professori della
locale università passano quasi tutti i pomeriggi al
telefono. Vladimir, professore di fisica teorica dalle
origini russe, ha un accento fortissimo, tanto da far
dubitare dell'utilità delle sue telefonate. Racconta che
una volta una signora spaventata all'altro capo del filo
gli ha urlato: “Ora sono sicura che Obama odia l'America:
i suoi amici lavorano per Putin!”
Tra una telefonata e l'altra, fa il suo ingresso
un'elegante signora di mezza età in tayeur, dall'aria
esausta. Ha passato le ultime ore alla locale sinagoga,
cercando di spiegare alla comunità ebraica le virtù del
piano di assistenza sanitaria universale di Obama. Ma la
discussione si è presto trasformata in un interrogatorio
da parte del rabbino e di tutti i fedeli, preoccupati
dalle email e dagli spot televisivi repubblicani, nei
quali si insinua che Obama sia in realtà musulmano. La
rivelazione suscita un coro di grasse risate, mentre
qualcuno commenta scherzoso: “Peggio che musulmano, è
socialista!”
La campagna di Obama ha completamente cambiato il modo di
fare politica. Quattro anni fa, il leader della Convention
Democratica, Howard Dean, aveva proposto di trasferire
sulla rete la maggior parte delle attività, ma è solo
grazie Obama che l'uso massiccio di Internet è stato
dispiegato in tutto il suo potenziale. Lo staff
democratico ha creato il sito Votebuilder, che
contiene un elenco nazionale degli elettori registrati
come indipendenti e funziona come “banca del telefono”.
Ogni attivista democratico può connettersi al sito da casa
e partecipare alla campagna per convincere gli indecisi,
accedendo all'elenco degli elettori registrati come
indipendenti negli “swing states” e chiamandoli uno per
uno. La sede centrale della campagna gestisce i contatti e
assicura la copertura totale dei distretti elettorali più
a rischio. I democratici riescono così a raggiungere di
persona persino le aree più isolate dell'entroterra,
altrimenti del tutto irraggiungibili, e creare un contatto
umano con i potenziali elettori. Una tattica
diametralmente opposta a quella dei repubblicani che,
evidentemente a corto di attivisti, fanno largo uso delle
“robo-calls”, messaggi telefonici preregistrati, che negli
ultimi giorni sono stati stigmatizzati dalla stampa a
causa del loro contenuto diffamatorio.
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