Non si può certo difendere un regime che, come accade, ordina ai suoi
sgherri di sparare su una folla di monaci indifesi. La Birmania, o Myanmar
(secondo l’attuale denominazione) è un paese privo di libertà, almeno nel
senso in cui la intendono le organizzazioni internazionali votate a
promuovere i valori dell’Occidente.
Ma per liberarsi, una volta per sempre, dei militari, unica istituzione
sociale esistente insieme alla “chiesa buddista”, sarebbe necessaria una
struttura sociale alternativa, che attualmente non esiste.
Che cosa vogliamo dire? Che le rivoluzioni democratiche e liberali implicano
la presenza di un ceto borghese e di una società civile: due fattori sociali
che in Birmania praticamente non esistono. Pertanto la caduta di un pessimo
regime militare, favorirebbe quei gruppi di pretoriani più favorevoli a una
specie di democrazia controllata, ma sempre reversibile.
Qualche dato a conforto nelle nostre tesi (rinvenibile in qualsiasi buona
enciclopedia aggiornata): il 75 % della popolazione birmana (circa 45
milioni di abitanti) vive di agricoltura; reddito e tasso di sviluppo umano
sono tra i più bassi del mondo; il ceto commerciale è costituito da non
birmani ( i birmani sono il 69% della popolazione): cinesi, pakistani,
tailandesi e indiani. Quanto alla sfruttamento delle risorse naturali (di
cui il paese sembra apparentemente ricco) è in crescita l’estrazione del
petrolio e la produzione di gas naturali. Si tratta di settori controllati
in larga misura dallo stato, che nel caso di privatizzazioni post-regime
militare finirebbero in mani straniere, con la stessa complicità delle
famiglie di militari, riciclatasi, come di regola avviene, alle attività
civili. Dal momento che la famiglia allargata, in senso patriarcale, sembra
sia l’unica struttura sociale tra quelle militari e religiose da una parte,
e una popolazione dispersa in villaggi rurali dall'altra. I Birmani sono al
90% buddisti (la cui etica sociale, dunque, non è precisamente in linea con
i valori individualistici e competitivi dell’Occidente). Inoltre ai suoi
confini politici (con Bangladesh, India, Cina, Laos e Thailandia) vivono
differenti etnie ( tra le maggiori: Kachin, Karen, nonché i cosiddetti
gruppi delle pianure, Shan ), che in una situazione di caos politico,
potrebbero trasformarsi in poteri “centrifughi” (o comunque in grado di
imporre rinegoziazioni). Anche perché nella parte orientale, in
corrispondenza del “triangolo d’oro”, è attivo un settore economicamente
forte e collegato alla criminalità internazionale, come quello della
coltivazione dell’ oppio.
Insomma, la caduta di quel che moralmente ripugna (una spietata dittatura
militare), potrebbe condurre soltanto a una democrazia puramente formale,
sempre controllata dai militari (magari da lontano), e dagli importatori di
petrolio, gas naturale e oppio (tramite alcune grandi famiglie locali,
sempre legate ai militari).
La nostra, ovviamente, non è un’analisi da studiosi di questioni
internazionali. Cerchiamo solo di dimostrare sul piano sociologico, che
senza prerequisiti e profonde trasformazioni sociali e culturali (che
richiedono decenni se non secoli), l’introduzione della democrazia formale,
non può portare nell'immediato, alcun vantaggio sostanziale a popoli non
occidentali, come quello birmano. Anche la totale apertura al turismo
occidentale, finirebbe per essere gestita - vista l’assenza di una
imprenditoria birmana - da stranieri, e in particolare da grandi società
occidentali. Con tutto quel che seguirebbe dal punto di vista di un’economia
satellite, nell’ambito della disgregazione sociale e dello sviluppo di
fenomeni come prostituzione, gioco d’azzardo, vendita e consumo di droghe. E
una volta avviato uno sviluppo di tipo coloniale (seppure di tipo
"postmoderno"), è difficile invertirne la rotta sul piano delle strutture
sociali, perché i poteri si ricompongono e solidificano, fino a diventare
impermeabili a qualsiasi riforma democratica basata sulla persuasione e la
non violenza. Il che, di regola, provoca la nascita di un contropotere
militare, lo scoppio di guerre civili, e la formazione di nuove élite
militari "rivoluzionarie", che a loro volta, appena giunte al potere, si
solidificano in caste, e così via.
In conclusione, cacciare i militari, in assenza di alternative sociali,
paradossalmente, può rendere il popolo birmano, formalmente più libero, ma
sostanzialmente ancora più povero e disperato.
Se ci passa l’espressione, ci troviamo davanti a un'autentica tragedia
sociologica.
Carlo Gambescia
Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
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