Come era ampiamente prevedibile, dati i
sondaggi pre elettorali, le elezioni di
mid-term si sono trasformate in un vero e
proprio tsunami per la politica americana. I
democratici hanno conquistato con un deciso
margine la maggioranza della Camera dei
Rappresentanti e, per la prima volta, una
donna, Nancy Pelosi, diventerà Speaker della
Camera Bassa, ovvero la terza autorità del
Paese. Al Senato invece il risultato finale
del voto dipenderà da un possibile riconteggio
in Virginia, dove il candidato democratico
James Webb conduce al momento per circa 8.000
voti rispetto al senatore repubblicano uscente
George Allen. Voci dell'ultima ora vorrebbero
Allen pronto a concedere la sconfitta ed
evitare lo stillicidio di un ennesimo
riconteggio, ma staremo a vedere se sarà
davvero così o meno. Resta il fatto che, se i
democratici dovessero conquistare anche il
seggio senatoriale della Virginia, il loro
trionfo sarebbe completo con la conquista
della maggioranza anche alla Camera Alta,
impresa che era considerata assolutamente
remota solo a giugno di quest'anno. Senza
dubbio, non c'era modo migliore da parte degli
elettori americani per mandare un messaggio
chiaro e tondo all'Amministrazione Bush:
cambiate rotta. Il primo risultato di questo
tsunami politico si è avuto subito: le
dimissioni del Segretario alla Difesa, Donald
Rumsfeld, già sulla graticola da tempo a causa
degli errori di gestione del “dopoguerra”
iracheno, che hanno trasformato l'Iraq in un
Paese sull'orlo della guerra civile.
Dopo la Caporetto elettorale dei repubblicani,
Bush ha pensato bene di “rifarsi una faccia” e
dare un segno di cambiamento e di
collaborazione nei confronti dei vittoriosi
democratici, proprio accettando queste
dimissioni da tanto tempo e da tante parti
richieste. Non si era mai visto prima d'ora
una elezione di mid-term che ha fatto vittime
immediatamente come in questo caso, a
dimostrazione di quanto forte fosse la valenza
politica di queste elezioni trasformate in un
vero e proprio referendum sui 6 anni di
Amministrazione Bush e sulla disastrosa guerra
irachena.
E' stata proprio la guerra in Iraq, secondo
tutti gli exit poll, una delle principali
cause della sconfitta repubblicana, checché ne
dica il presidente dimezzato George W. Bush.
Al di là delle frasi di circostanza sul
“manterremo i nostri impegni” e “non ci
ritireremo dall'Iraq prima che il lavoro sia
compiuto”, l'Amministrazione Bush per
sopravvivere politicamente negli ultimi due
anni dovrà concedere qualcosa anche da questo
punto di vista. Secondo molti analisti
politici è molto probabile che nei prossimi
mesi il presidente Bush presenterà una sorta
di “timeline” per il ritiro scadenziato delle
truppe americane dall'Iraq, dando inizio ad
una fase nuova della politica estera della sua
Amministrazione. Inoltre, è opinione comune
che questi ultimi due anni di presidenza Bush
vedranno un ritiro delle “teorie unilaterali”
tanto care ai neoconservatori, a favore del
multilateralismo e della cooperazione con le
Nazioni Unite, sebbene nessuno si attenda un
vero cambiamento radicale della politica
estera americana. E' in ogni caso la prima
volta che il cambio di maggioranza al
Congresso potrebbe portare delle innovazioni,
anche piccole, nella politica estera del
Paese. Questo la dice tutta sulla portata del
cataclisma politico avvenuto in questo freddo
martedì di novembre.
Per quanto riguarda invece la politica
interna, l’opinione generale è che la vittoria
dei democratici significherà, molto
probabilmente, il ritorno ad una disciplina di
bilancio più rigorosa e, quindi, in primo
luogo l'abolizione di quei tagli alle tasse
che avevano caratterizzato la politica
economica del primo mandato di Bush e che
tanto erano stati criticati per i loro effetti
devastanti sul bilancio federale e per la loro
propensione ad aiutare chi era più ricco.
Inoltre dai democratici ci si attende anche
una maggiore attenzione verso la spesa
sociale, ridotta al minimo dopo la cura di
cavallo degli anni dell'era repubblicana.
Bisogna considerare comunque che tutte le
politiche che saranno messe in essere negli
anni a venire non potranno prescindere dalla
scadenza del novembre 2008, quando gli
americani saranno chiamati di nuovo alle urne
per eleggere il primo presidente dell'era
post-Bush. Per questo motivo, come già
accaduto in passato, è probabile che entrambi
i partiti politici cerchino di fare gli
interessi del proprio elettorato di
riferimento, per presentarsi in maniera quanto
più forte possibile alle prossime elezioni,
anche se questo dovesse significare, di fatto,
il blocco quasi completo dell'attività
legislativa federale. Molto dipenderà,
comunque, dalla sincerità delle affermazioni
del presidente Bush che si è appellato ai
democratici per cercare una via di
collaborazione.
In sintesi, dunque, le aspettative sono molto
alte dopo la vittoria democratica al
Congresso. Questo, paradossalmente, potrebbe
sfavorire in futuro gli stessi democratici,
nel caso non adempiessero alle promesse
elettorali che hanno portato loro alla
vittoria, soprattutto riguardo al ritiro delle
truppe dall’Iraq ed alla lotta alla
corruzione, che ha piagato il Congresso
uscente con una serie di scandali senza fine.
Nessuno ovviamente pensa che i democratici
possano essere la panacea di tutti mali.
Quello che però è sicuro è che da oggi è
finita un’era e tutto ciò che potrà accadere
in futuro nella politica americana, non potrà
prescindere dalla volontà del popolo
americano, espressa fin troppo chiaramente dal
risultato di queste elezioni. Cosa
significherà tutto ciò nei fatti e se davvero
si tratta di una svolta nella politica
americana, come qualcuno ha già affermato, è
troppo presto per dirlo. Dipenderà molto, tra
le altre cose, anche dalla forza dei diversi
gruppi di pressione liberal e progressisti,
come MoveOn.org, sulla neonata maggioranza
democratica. Per adesso comunque un risultato
fondamentale è già stato ottenuto: niente più
per Bush sarà come prima. Per ora almeno,
tanto ci basta.
Archivio Elezioni USA
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