Bush ha perso. Ma quali sono le
possibilità di un radicale cambiamento della politica estera americana?
Attenzione, non ci riferiamo alle “sfumature” (ad esempio al ritiro del
grosso delle truppe dall’Iraq) ma a mutamenti sostanziali, come al ritiro
totale ( anche dalle basi in costruzione) e alla concessione di una reale
indipendenza politica all’Iraq “democratico”. Per non parlare poi della
politica fortemente filoisraeliana.
Il problema del radicale cambiamento della politica estera Usa è un
interessante problema di scienze politiche e sociali. Per quale ragione?
Perché richiede un’analisi, almeno a grandi linee, dei rapporti tra
strutture politiche, sociali ed economiche che ne sono alla base.
Il rapporto tra forze politiche ed economiche, intese queste ultime come
grandi strutture, rinvia ai pesanti condizionamenti che le grandi imprese
monopolistiche hanno esercitato sulla politica americana, in misura
crescente, dalla Prima guerra mondiale. Si tratta di un dato storico. Queste
forze, che al tempo delle profonde analisi di Tocqueville (1831-1832) erano
minoritarie, impongono da quasi un secolo, una sola politica estera: quella
dell’ espandersi fino dove possibile. Il che è provato da un serie di
colossali imprese militari: Prima guerra mondiale, Seconda guerra mondiale,
guerra di Corea, guerra in Vietnam, Prima guerra del Golfo, guerra del
Kosovo, guerra in Afghanistan, Seconda guerra del Golfo ( e trascuriamo gli
interventi “minori” in America Latina e altrove). Si tratta di un rapporto
squilibrato: l’economia americana ordina la politica esegue. A causa di
questo processo, e soprattutto nella seconda metà del Novecento, si è
determinato un complesso industriale-militare: un blocco di interessi che si
appropria, grosso modo, del sessanta per cento del Pil americano (per alcuni
studiosi anche di più), il cui strapotere non può (né potrà) essere
contrastato dalla politica. E qui sorge anche un interessante problema di
quadri dirigenti politici. Il 90 % degli alti funzionari, che collaborano
con i presidenti degli Stati Uniti, provengono da stesse élite militari ed
economiche che detengono le leve del comando. Perciò presentare la
sostituzione di Rumsfeld come una svolta è errato e ridicolo. Tra l’altro
anche Nancy Pelosi, nuovo speaker democratico, proviene dagli stessi
ambienti.
Non bisogna però ricadere nell’economicismo. Il complesso
industriale-militare, ha una sua ideologia giustificatrice, che nel tempo ha
assunto forza propria. Si tratta di un’ ideologia di tipo imperiale. Fondata
sull’idea della assoluta supremazia del popolo americano: popolo eletto per
eccellenza. Che avrebbe una sua missione da compiere, quella di “donare” al
mondo intero il suo modello di vita. Si tratta di un rapporto circolare:
l’ideologia rafforza gli interessi e viceversa…Per correttezza va fatta però
una distinzione: per i democratici, contano gli ideali di felicità
individuale, per i repubblicani gli ideali di libertà economica. Si tratta
di un differenza sottile, spesso enfatizzata dai media, che in realtà rinvia
a una stessa ideologia imperiale, declinata però in forme politiche
differenti (attenzione, non ideologiche). Quanto all’isolazionismo, spesso
invocato dai commentatori, si tratta di un’ideologia, di tipo
agrario-individualistico, precedente la Prima Guerra Mondiale, ormai fuori
gioco perché priva di basi economiche e sociali reali. Infatti i pochi
politici che invocano l’isolazionismo sono in genere dei “fuoriusciti”
sociali, non più legati al complesso militare-industriale, e che spesso
vengono subito emarginati. Si pensi ad esempio a un Ross Perrot. Oppure si
tratta di gruppi estremisti, se non terroristi, completamente isolati sotto
l'aspetto sociale.
Pertanto, blocco industriale-militare e ideologia imperiale, sovrastano e
guidano le scelte politiche individuali, sia dei politici in senso stretto,
che del popolo americano. E qui c’è un dato elettorale da tenere presente.
Vediamo quale.
In America, al di là di occasionali impennate, chi vince le elezioni, deve
accontentarsi di meno della metà dei voti espressi (in media vota il 50 %
degli aventi diritto). Insomma il partito che vince deve accontentarsi di
meno della metà dei voti espressi. Un presidente degli Stati Uniti, ad
esempio, finisce per rappresentare a mala pena un 25 % di quel 50 % che
vota. Insomma raccoglie il voto favorevole di una minoranza di cittadini:
circa ¼.
Insomma, nei risultati, ogni elezione riflette la struttura oligarchica del
potere di cui sopra. Una struttura che non incoraggia il voto (a cominciare
dalle procedure di registrazione), ma favorisce la disuguaglianza sociale,
educativa e il quietismo: se sei in fondo alla scala sociale, evidentemente
lo meriti, così ammonisce l’ideologia americana. E stando alle statistiche,
chi non vota appartiene proprio alle fasce più povere: quelle dei “perdenti”
della vita, soprattutto perché privi di titolo di studio. Del resto la
distribuzione sociale della partecipazione elettorale americana riflette la
scala dei redditi, e in particolare l’istruzione: più si è in alto, perché
si è istruiti, più si va a votare. Il 92 % di coloro che hanno istruzione
universitaria vota. Mentre non vota il 90 % di coloro che hanno un'
istruzione elementare. Secondo alcune statistiche, gli alti livelli di
analfabetismo e la scarsa capacità di comprendere comunicazioni scritte
(problemi che riguardano quasi la metà della popolazione adulta)
impedirebbero addirittura a molti cittadini di votare ( su questi aspetti si
vedano i siti
http://.www.electoralgeography.com/ e
www.lib.uchicago.edu/e/su/govdocs/politics.html ).
Si tratta di un meccanismo infernale: più aumentano povertà e deprivazione
intellettuale, meno la gente va a votare (perché non capisce, perché
l’istruzione costa, perché è rassegnata, perché è abituata a ubbidire), e
più cresce il potere, privo di mandato democratico delle ricche classi
dominanti.
Perciò, su queste basi , sperare che gli Stati Uniti mutino la propria
politica estera espansionistica, solo perché i repubblicani sono stati
sconfitti nelle elezioni di midterm è molto improbabile, se non del tutto
impossibile.
Carlo Gambescia
Fonte.
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
9.11.06
Archivio Elezioni Americane
Archivio Internazionali
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