In fondo, francesi, italiani e
spagnoli parlano tutti malamente il latino… Eppure, le leggere differenze
nelle storpiature che ciascuno introduce nella nostra comune lingua madre
sembrano sufficienti a generare conflitti che per fortuna non si estendono
più al campo militare, ma pesano come macigni sulla strada della
integrazione europea.
Protezionismi al di là e al di qua delle Alpi
È difficile capire per quali ragioni "razionali" un Governo resti
ossessionato dall’idea che il controllo di una impresa "tradizionalmente"
del suo paese passi a un soggetto estero (con il quale non è in guerra, e
con il quale ogni conflitto militare è del tutto improbabile). Perché di
questo si tratta;anche se ora il Governo francese, in modo poco credibile,
al limite del poco serio, racconta che la fusione Gaz de France – Suez
non ha a che fare con le avance di Enel. E che sia una
unificazione in qualche modo "non irragionevole" non cambia né il fatto che
il Governo francese è il protagonista principale nella determinazione delle
strategie delle massime imprese francesi, né il fatto che il mercato
francese resta del tutto impermeabile a tentativi di acquisizioni.
I mercati dovrebbero essere liberi e aperti; questo vale per il mercato dei
beni, per il mercato dei servizi, ma non – pare – per il mercato delle
imprese. Tanto che qualcuno si chiede se la Francia pensi di restare
all’interno della Unione Europea solo per sfruttare le aperture di altri con
una sorta di imperialismo intra-comunitario di difficile interpretazione.
Purtroppo, anche sul versante italiano delle Alpi vediamo spettacoli
poco coerenti e soprattutto strategicamente del tutto errati. Poco coerenti,
perché lo stesso presidente Berlusconi aveva appena accusato i giudici di
avere consegnato una banca in mano straniera, mentre il ministro Tremonti
aveva sottolineato come le banche italiane debbano attrezzarsi a respingere
gli attacchi stranieri. L’Italia degli ultimi anni non è titolata a dare
lezioni di europeismo.
Errori di tattica, errori di strategia
E poi, la stessa Enel è impresa controllata dal Governo italiano, che ne
nomina da sempre i vertici. Un’impresa privata italiana sarebbe
probabilmente stata trattata nello stesso modo, ma il fatto che un pezzo del
sistema politico italiano venga respinto alla frontiera non è in sé così
sorprendente.
La goffaggine tattica con la quale Enel si è imbarcata in questa
missione – che come operazione "ostile" era destinata a un fallimento quasi
certo – rinvia anche a responsabilità politiche che si sommano a
quelle del management.
Ma quella che il Governo italiano ha perseguito è nel complesso una
strategia europea errata.
Si pensi al caso Edf-Edison. Edf entra in Italia, cercando di
acquisire una partecipazione in Edison, impresa che ora ha circa il 15 per
cento del mercato energetico nazionale (sia energia elettrica sia gas). Il
Governo urla allo scandalo, e poi come "reciprocità" cosa ottiene? La
partecipazione di Enel a un programma di ricerca di Edf e la possibilità di
entrare in un’impresa francese che nel 2012 punta ad avere il 7 per cento di
un mercato comunque dominato in misura praticamente totale da Edf. Briciole.
Meglio sarebbe stato cogliere l’occasione non per un "do ut des", ma per
costringere il Governo francese ad accettare un principio che non tutelasse
tanto Enel nell’immediato, quanto piuttosto qualunque impresa italiana (o
europea) in futuro. Invece, si è preferito tutelare il nostro campione
nazionale contro quello francese, un’ottica che è facile oggi valutare come
del tutto miope.
Ha senso richiedere oggi reciprocità, o addirittura minacciare
ritorsioni contro imprese estere che vogliano lanciare Opa in Italia (come
ha chiesto il ministro Tremonti), contro il tessile francese (come ha fatto
il ministro Maroni) o contro la banca Bnp nella sua acquisizione della Bnl
(come ha detto il leader dell’opposizione Romano Prodi)? Non direi. Si tende
a dimenticare che i rapporti bilaterali non sono mai l’anticamera del libero
commercio e dello sviluppo globale; la svolta anti-protezionistica a livello
mondiale fu data con il Gatt e la affermazione del principio del
multilateralismo.
Dovere ricordare queste ovvietà è preoccupante nell’Unione Europea di
oggi, per la quale questi principi elementari dovrebbero essere nel suo Dna.
E invece fatichiamo a incamminarci su questa strada, il che è grave, non
tanto per la questione Enel-Suez (che è significativa, ma non cambierebbe il
futuro dell’Unione Europea ) ma perché l’intero settore energetico del
continente ha bisogno di "più Europa".
L’Europa come asset
Di questo sembrava essersi resa conto la Unione Europea quando a Lisbona
si affermò come obiettivo continentale l’aumento delle capacità di
interconnessioni tra le reti energetiche (elettriche, in particolare)
del continente. Purtroppo, da allora le gelosie nazionali hanno obbligato ad
alcuni passi indietro, e da un obiettivo generale di aumento della
integrazione tra sistemi energetici si è passati a "forum regionali" che
raccolgono frontiera per frontiera i paesi interessati per cercare di far
avanzare il processo localmente. Ovvero: la Unione Europea ha rinunciato a
risolvere il problema nel suo complesso, e quindi ha spinto a trattative
bilaterali (o trilaterali) per sperare di migliorare comunque la situazione.
Il risultato – il che non sorprende – è stato molto deludente.
Ora l’Italia, un pezzo rilevante di Europa, sta attraversando una pesante
crisi energetica, con un calo delle forniture di gas russo che ha
costretto ad attingere dalle scorte "strategiche" e a imporre regole più
stringenti al riscaldamento delle case. A prescindere dalle
evidenti responsabilità dell’altro campione nazionale energetico, questo
pone in evidenza come la sicurezza energetica di un grande paese europeo
fatichi a essere garantita operando solo in un’ottica nazionale.
C’è assoluta necessità di riprendere l’iniziativa a livello continentale sul
fronte elettrico e su quello del gas ancora di più. L’Europa ha un pesante
deficit energetico sia in campo petrolifero, sia per quanto concerne il gas.
La Unione Europea, rappresentando un grande mercato, potrebbe essere un
negoziatore più potente dei singoli Stati nazionali. E potrebbe gestire
i rischi energetici molto meglio: un mercato più ampio ha necessità di
riserve di capacità di generazione elettrica, e presumibilmente anche di
scorte di gas, minori della somma dei diversi paesi.
È difficile calcolare quanto potrebbero risparmiare i paesi se decidessero
finalmente di affrontare il tema della sicurezza energetica collettivamente.
In questo campo, l’Europa è uno strumento, e probabilmente uno strumento
assai efficace. Rinunciare alle potenzialità di tale asset è
semplicemente irrazionale. Proseguire su strade nazionali o al massimo di
contrattazione bilaterale ci condanna a inefficienze che poi sono pagate dai
consumatori.
In questo senso, non mi sembra che l’atteggiamento del Governo francese e di
quello italiano possano essere qualificati come particolarmente "fruttuosi".
Questa è la cosa grave. Come ai tempi delle guerre puniche, "Dum Romae
consulitur, Saguntum expugnatur" - Mentre a Roma si discute, Sagunto cade.
In Europa si bisticcia su quale dialetto neo-latino deve parlare il nuovo
proprietario di Suez, mentre la sicurezza energetica del continente è
da sempre in pericolo. Ma su questo non c’è tempo o voglia di intervenire.
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