Siamo al 14 agosto, dichiara
Giulio Tremonti: l’affare Enel-Suez sarebbe il preambolo della guerra civile
europea. Ma questa frase terribile è la risposta a un’altra immagine forte,
quella di un primo ministro francese, con a fianco due ammutoliti
amministratori delegati, mentre annuncia la fusione di due società
energetiche, in risposta all’Opa preliminare di Enel. "Commedia dell’arte
contro il chicchirichì dei galli": l’Europa deve essere proprio in crisi per
permettere un tale spettacolo.
Una fusione coerente
La prima impressione, a una settimana dall’annuncio della fusione in un
lussuoso hotel di Bruxelles, è che l’operazione Suez-Gdf debba essere
valutata per la sua coerenza economica, per aver rimesso in gioco il
predominio di Edf, e per il suo contributo all’accelerazione delle
privatizzazioni. Del resto, anche il Financial Times ne riconosce la
coerenza industriale. Non bisogna quindi farsi influenzare dalle immagini
forti e dai proclami di principio. Il riavvicinamento tra Suez e Gdf ha un
significato, avviene in seguito all’assorbimento di Ruhrgas da parte di Eon,
dopo il lancio dell’Opa di Gas Natural su Endesa, e dopo che l’ipotesi di
una fusione Edf-Gdf è stata scartata.
La vera questione è allora un’altra: perché assistiamo, in Europa, a questo
processo di consolidamento? Perché i Governi sostengono le concentrazioni
nazionali, contro Bruxelles e talvolta contro le loro stesse autorità di
regolazione della concorrenza? La risposta si può trovare in due
considerazioni. La prima riguarda il mix energetico europeo. L’altra, il
fallimento di un modello datato di regolamentazione.
Fonti energetiche e regole del mercato
La composizione delle fonti energetiche in Europa sta cambiando
rapidamente per l’incremento del prezzo del petrolio e del gas, in
previsione di un Kyoto 2, che comporterebbe un rincaro dei costi delle
emissione di gas-serra, e perché il terzo passo verso la liberalizzazione
del mercato dell’energia avverrà come previsto nel 2007.
La fine del petrolio a buon mercato e la crescita del prezzo del gas
hanno un doppio effetto: rendono più difficile la concorrenza dei nuovi
operatori verso quelli storici e riportano la questione della sicurezza
degli approvvigionamenti al centro delle preoccupazioni delle autorità
politiche.
D’altra parte, anche la crescita attesa del prezzo del carbone nel
quadro di un rafforzamento della lotta al surriscaldamento del pianeta
attraverso la limitazione delle emissioni di gas-serra, ha un doppio
effetto: favorisce le imprese elettriche che si affidano principalmente
all’energia idraulica e nucleare, e svantaggia le società che dipendono dal
carbone e dal petrolio.
Una tale prospettiva giustifica investimenti e ricerca finanziati dagli
Stati, come dimostra l’"Energy Bill" del presidente Bush. La legge, emanata
l’estate scorsa, prevede infatti un forte sostegno per il rilancio del
nucleare e per la ricerca, soprattutto nel campo del sequestro di carbone.
Infine, la conferma al 2007 del terzo passo della liberalizzazione
dei mercati europei dell’energia rende cruciale per gli operatori
tradizionali l’uscita dai territori nazionali e l’avvio di offerte
multienergetiche. Ma è cambiata di conseguenza anche la distribuzione e la
corsa agli approvvigionamenti. Edf o Vattenfall, che operano una nel
nucleare e l’altra nell’energia idrica, si sono rafforzate. Suez, grazie a
Electrabel (nucleare) e a Cnr (idrica), è diventata una preda ambita. Enel e
Eon, sedute su una montagna di denaro, sono invece in cerca di prede.
Ma le concentrazioni potrebbero essere negoziate e gestite a livello
europeo. Invece, si cercano soluzioni nazionali: perché?
La risposta è semplice e brutale: l’Europa ha fallito nella politica
energetica. Il modello europeo di liberalizzazione per l’energia era basato
su una questione dimenticata, la sicurezza, e su tre orientamenti strategici
che si sono rivelati erronei.
Non vogliamo qui discutere della sicurezza: la dipendenza dal gas russo e le
debolezze nella rete di trasporto sono ormai note.
La liberalizzazione europea è stata pensata mercato per mercato: l’obiettivo
della Commissione era rompere i monopoli nazionali verticalmente
integrati e non costituire una piattaforma europea integrata per
sviluppare interconnessioni al di là delle frontiere.
La liberalizzazione europea ha fatto affidamento sull’idea che si potevano
ottenere diminuzioni significative dei prezzi moltiplicando gli attori e
favorendo il loro accesso alla rete dell’operatore tradizionale.
Semplicemente, la Commissione non ha considerato che ciò che è possibile con
il gas a prezzo contenuto e se esistono sovracapacità idriche, è impossibile
quando il prezzo del gas triplica, come è avvenuto negli ultimi tempi.
Risultato, oggi bisogna obbligare Edf ad aumentare le tariffe se non
vogliamo che spariscano gli operatori alternativi.
Infine, l’Unione Europea ha scommesso sull’introduzione di una
regolamentazione dei mercati locali attraverso enti di regolamentazione
locali. Non ha potuto dunque evitare né la mancanza di un regolatore
specializzato, come è avvenuto in Germania, né lo scontro tra l’ente di
regolamentazione e i campioni nazionali in diversi altri paesi.
Il risultato di ciò, che è giusto definire una sconfitta collettiva, è una
ri-nazionalizzazione di fatto praticata dai politici. Ne sono la
migliore dimostrazione l’incapacità europea di negoziare con Gazprom, di
pensare collettivamente la diversificazione dei gruppi energetici nazionali
e di bloccare la politica dei campioni nazionali multienergetici iniziata da
Eon.
In un simile contesto, la fusione Suez-Gdf realizza l’accordo perfetto tra
un’industria del gas e una elettrica, tra un operatore nucleare e idrico e
uno del gas, tra un leader del Gnl e uno specialista di servizi energetici,
tra un francese senza prospettive e un belga sotto dimensionato. Non c’è
dunque nulla di scandaloso nella fusione. Anzi, vi si possono scorgere
benefici secondari degni di considerazione, come la banalizzazione di Edf
nel contesto europeo e la privatizzazione di Gdf.
Oltre la sconfitta
Bisogna pertanto rassegnarsi alla sconfitta? L’errore peggiore sarebbe
quello di proseguire con una politica che ha già dimostrato le sue carenze.
Un’altra politica è possibile, che concili l’intensificarsi della
concorrenza nell’interesse del consumatore, la sicurezza energetica e
l’uscita graduale dall’economia del carbone. Si deve basare su tre pilastri.
Da un lato, bisogna accettare l’idea che nei prossimi anni il rilancio
degli investimenti passi attraverso i grandi operatori tradizionali. È
necessario dunque riattivare gli incentivi agli investimenti e rinunciare
alla concezione di una concorrenza atomistica nel settore energetico.
Ma nello stesso tempo bisogna rafforzare la concorrenza, oggi
decisamente insufficiente.
Compito della Commissione è dunque incentivare lo sviluppo delle
interconnessioni al di là delle frontiere, e rendere più trasparenti le
condizioni d’accesso alla rete di trasporto del gas e dell’elettricità.
Infine, per mettere in atto una politica comune, bisognerà dotarsi di
strumenti comuni, primo fra tutti un regolatore europeo.
La minaccia di tentazioni nazionaliste è abbastanza seria, le sfide
tecnologiche e industriali sufficientemente evidenti: è meglio evitare le
invettive e le guerre assurde.
* Elie Cohen è direttore della ricerca al CNRS e membro del Conseil
d’analyse économique
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