Al di là delle diverse
interpretazioni che si possono dare del momento oggettivamente non facile
della nostra economia, è indubbio che si pone un problema articolato e
complesso di posizionamento del nostro paese nello scenario competitivo
mondiale.
Non è possibile illuderci che i nostri problemi siano transitori e legati
solo all’alto costo del lavoro o del petrolio. È difficile immaginare che il
prezzo del greggio possa scendere in modo significativo, anzi c’è da
augurarsi che non salga ancora troppo. Allo stesso modo, se vuole mantenere
il tenore di vita tipico di una società occidentale, è evidente che il
nostro paese non potrà mai competere a livello internazionale contando su un
costo del lavoro più basso. La realtà è che il mondo è cambiato. Non
è possibile continuare a produrre cose vecchie; dobbiamo fare cose nuove. È
sul terreno della crescita e dello sviluppo che si verificherà la capacità
del nuovo Governo di imprimere una svolta reale al paese. A partire dalla
eliminazione di alcuni stereotipi che ci portiamo dietro da anni.
Innovare ogni giorno
Il primo stereotipo è quello secondo il quale in molti settori abbiamo
perso tutti i treni. I treni nascono in continuazione. Consideriamo il mondo
dell’Ict. Cinque anni fa non esistevano né Google, né iTunes/iPod. Dieci
anni fa nessuno avrebbe pensato di rifare Windows e oggi abbiamo Linux. L’Ict
(e soprattutto il software) diventa sempre più l’elemento pervasivo che
rivoluziona anche i prodotti convenzionalmente considerati non-Ict:
elettrodomestici, mezzi di trasporto (i trattori che arano con il Gps), le
macchine utensili, persino le lampade e gli elementi di arredamento. In
generale, il mondo dell’Ict, dei media e delle telecomunicazioni (si pensi a
Skype) è in subbuglio e, di conseguenza, aperto a novità e sorprese.
In sintesi, non è più sufficiente innovare i processi: dobbiamo innovare i
prodotti. E se la cultura e formazione manageriale, che tanto
successo hanno avuto in questi anni, è certamente utile per modernizzare il
modo di operare e funzionare delle aziende (i processi, appunto), il
rinnovamento dei prodotti richiede anche e soprattutto il recupero e la
valorizzazione delle competenze tecnologiche e di settore. Le tecnologie più
avanzate non sono commodity, come molti hanno a lungo suggerito. (1)
Sono complesse e sofisticate, e richiedono competenze adeguate.
Inoltre, per rilanciare e sostenere il processo di innovazione, è necessario
che si rafforzi la voglia di rischiare e investire del mondo
imprenditoriale, anche attraverso un riequilibrio tra la tassazione delle
rendite finanziarie e quelle di impresa.
Il ruolo dello Stato
Un secondo stereotipo riguarda il ruolo del pubblico. Non è vero che lo
Stato deve solo regolare. Tutti i paesi intervengono, sia a Est che a Ovest.
Il problema non è "se", è "come". Non servono certo le partecipazioni
statali di una volta, né interventi assistenzialistici. Servono azioni che
producano effetti positivi di sviluppo del mercato, evitando gli
errori del passato.
Per esempio, se si stimola solo la domanda di beni e servizi dei cittadini,
come si è fatto negli anni scorsi, in assenza di un’adeguata offerta,
cresceranno le importazioni. Oggi è necessario passare a politiche che
puntino a sviluppare l’offerta delle imprese.
Alcune forme di sostegno sono invece esempi di interventi pubblici
inadeguati. In particolare, se le aziende ricevono incentivi in quanto Pmi,
che interesse hanno a crescere? Se il problema italiano è il nanismo delle
imprese, incentivi efficaci sarebbero quelli che facilitano le operazioni di
merge&acquisition e premiano capitalizzazione e crescita dimensionale.
Spesso poi, si propone di aumentare la spesa pubblica attraverso grandi
progetti di sistema. Esiste il rischio che si riducano a sterili aiuti di
Stato. In realtà, se ben gestita, la domanda pubblica può essere
effettivamente un motore di crescita per le imprese. Ma a condizione che ci
sia un vero piano strategico. Quando le Ferrovie dello Stato hanno
commissionato il "Pendolino" hanno in realtà pensato innanzi tutto a
rispondere a un loro bisogno, ordinando un mezzo innovativo a una azienda
leader nel settore. In questo modo, oltre a risolvere un loro problema, le
Ferrovie hanno permesso alla Fiat di sviluppare un prodotto che è divenuto
un successo mondiale. È una cosa ben diversa dal generico finanziamento di
grandi progetti.
Infine, il delicato tema delle risorse economiche. Gli investimenti
in ricerca e sviluppo in Italia sono bassi. Per quanto riguarda il pubblico,
all’esiguità dei finanziamenti si aggiungono altre limitazioni. Recenti
bandi di finanziamento alla ricerca e all’innovazione prevedono somme
certamente significative. Tuttavia, nella maggior parte dei casi sono per il
90 per cento prestiti agevolati e solo per il 10 per cento contributi a
fondo perduto. Per esempio, il bando "tecnologie digitali" dei ministeri
dell’Innovazione tecnologica e delle Attività produttive del luglio 2005, ex
legge 46/82, stanzia 270 milioni per l’innovazione digitale. Di questi
fondi, l’81 per cento è erogata sotto forma di prestito a tasso agevolato
dello 0,5 per cento, il 9 per cento come prestito bancario e solo il 10 per
cento come contributo spese a fondo perduto. Un prestito agevolato va
comunque restituito. Quella parte del finanziamento non va a incidere sul
conto economico dell’azienda (e quindi a compensare i costi della ricerca),
se non per il vantaggio derivante dal differenziale dei tassi di interesse.
In sintesi, il reale trasferimento verso le imprese è di poco superiore al
10 per cento delle cifre menzionate. Si dirà che è giusto che ci sia solo un
cofinanziamento e che anche le imprese investano. Ma negli altri paesi, di
solito si ha un investimento delle imprese e un cofinanziamento a fondo
perduto dello Stato (o dell’Unione Europea) pari almeno al 50 per cento.
Certamente, l’adozione di fondi rotativi è comprensibile dal punto di vista
del bilancio statale, sul quale incidono, simmetricamente a quanto accade
per le imprese, solo i costi relativi ai differenziali dei tassi. Ma questi
meccanismi hanno un impatto limitato sui reali processi di ricerca e
innovazione.
È dunque più che mai necessario, da un lato, sostenere la necessità
ineludibile di cambiare e di innovare e, dall’altro, mettere in campo azioni
che siano realmente capaci di incidere sul tessuto delle imprese. Per fare
ciò, servono risorse e, ancor più importante, chiarezza di idee e coraggio
di rompere con gli stereotipi del passato.
(1) Si veda per esempio N. Carr, "IT doesn’t matter", HBR, maggio 2003.
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