Anticipiamo alcuni brani del libro di Giorgio
Ragazzi "I signori della Autostrade", che esce oggi
per il Mulino (206 pagine, 18 euro). Perché le
concessionarie autostradali registrano da tempo
profitti molto elevati? Per spiegarlo, il volume
ripercorre la storia del settore. Il capitale
investito della maggior parte delle concessionarie
era già stato ammortizzato e remunerato alla fine
degli anni Novanta e i pedaggi avrebbero potuto
essere drasticamente ridotti. Il ruolo delle società
pubbliche. E un sistema tariffario ben lontano dal
modello regolatorio del price cap.
Di Pietro, appena assunta la carica di
ministro, parlando delle concessionarie ha
dichiarato: “la cuccagna è finita”, anche se
poi non pare sia riuscito nel suo intento. Il
settore registra da tempo profitti
molto elevati. Per citare solo i casi più
rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei
Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte
il valore del suo investimento. (…)
L’imprenditore Gavio, entrato nel settore meno
di dieci anni addietro con un piccolissimo
investimento controlla oggi un “impero” che
vale quattro miliardi.
Per cercare di capirne i motivi abbiamo
ripercorso la storia del settore dalle origini
ad oggi. Poiché le concessionarie erano
prevalentemente pubbliche,
dell’Iri o di enti locali, ministri e Anas
sono sempre stati molto benevoli nei loro
confronti (alle spalle degli utenti). Già le
rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 erano
state una fonte di grandi profitti per le
concessionarie; senza quelle rivalutazioni,
nella maggior parte dei casi le autostrade
sarebbero già state interamente ammortizzate
alla fine degli anni ’90. La
privatizzazione di Autostrade ha poi
innescato una vera “cuccagna” e ne hanno
beneficiato anche gli azionisti privati. Èl’obiettivo
di massimizzarne il valore che ha indotto alla
proroga generalizzata delle concessioni alla
fine degli anni ’90 e all’introduzione di un
price cap particolarmente favorevole
per le concessionarie, per non parlare delle
clausole privilegiate inserite nella
convenzione della Autostrade.
Non esiste nessun settore dove un governo, o
addirittura solo un ministro, possa fare
“regali” così imponenti a società (pubbliche o
private) mediante la proroga della concessione
e la regolazione delle tariffe, senza che gli
utenti ne percepiscano nemmeno i costi
addizionali.
LE RIVALUTAZIONI MONETARIE
Se si fosse seguito negli anni il modello
teorico della concessione, secondo il quale
gli introiti tariffari dovrebbero consentire
al concessionario di ottenere una “congrua”
remunerazione e di ammortizzare nel tempo il
capitale investito sino ad azzerarlo allo
scadere della convenzione, le convenzioni di
moltissime concessionarie avrebbero dovuto
essere scadute già da molto tempo, per
avvenuto integrale rimborso del capitale
investito.
Una delle ragioni per cui questo non è
avvenuto sono le rivalutazioni
monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le
concessionarie hanno enormemente “gonfiato”,
nei loro bilanci, il valore contabile dei beni
gratuitamente devolvibili (cioè il capitale
investito nell’autostrada).
Gli investimenti erano stati finanziati
pressoché interamente a debito, da tutte le
concessionarie. A fine 1975 le 21
concessionarie avevano un capitale proprio (equity)
di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100
miliardi di investimenti (…).
A fronte delle rivalutazioni dell’attivo (beni
gratuitamente devolvibili) le concessionarie
hanno iscritto al passivo riserve monetarie
che hanno aumentato enormemente il valore
contabile del loro patrimonio. Hanno poi
ottenuto che questi maggiori valori venissero
considerati “capitale investito”, da
remunerarsi in tariffa e da rimborsarsi entro
la scadenza della concessione (…). Ad esempio,
il capitale sociale dell’Autostrada del
Brennero ammontava nel 1997 a 107,4 miliardi
di lire, ma di questi ben 104,5 miliardi
derivavano dalla rivalutazione monetaria
effettuata in base alla legge 72/1983: il
capitale proprio sottoscritto dagli azionisti
è stato davvero minimo, mentre oggi il
patrimonio della società ammonta a ben 310
milioni di euro. Lo stesso può dirsi per molte
altre (…).
Il capitale investito della maggior parte
delle concessionarie era già stato ampiamente
ammortizzato e remunerato, tra la metà e la
fine degli anni ’90. Le tariffe avrebbero
quindi potuto essere drasticamente ridotte (o
gli “extraprofitti” girati allo Stato come era
previsto dalla legislazione degli anni ’60).
Al termine delle concessioni i beni avrebbero
dovuto essere devoluti gratuitamente allo
Stato. Le concessionarie sono invece risorte a
nuova vita con la proroga generalizzata delle
convenzioni nel 1999-2000 (vedasi paragrafo
2.7). Il nuovo sistema tariffario (price
cap) è partito poi stabilendo norme per
gli incrementi di tariffa, ma
accettando per buoni i livelli
tariffari esistenti, senza verifica della loro
congruità rispetto al capitale netto investito
residuo di ciascuna (paragrafo 2.6).
Altre rivalutazioni monetarie
sono state effettuate da molte concessionarie
nei primi anni 2000 (…). L’Anas, in occasione
del rinnovo della concessione alla Satap A4 (Torino-Milano),
ha accettato di calcolare il capitale
investito sulla base dei valori rivalutati a
bilancio (…). Se la rivalutazione viene
equiparata a un incremento del capitale netto
investito, il maggior valore deve essere poi
“rimborsato” alla società entro la scadenza
della concessione, e remunerato nel frattempo,
con corrispondenti incrementi di tariffa.
Questa è una richiesta del tutto
ingiustificata, non solo perché le
rivalutazioni sono facoltative e non
obbligatorie ma soprattutto per la logica
sottostante. La maggior valutazione
dell’autostrada (o del ramo d’azienda cui è
intestata la concessione) si giustifica solo
perché produce “extraprofitti”, cioè profitti
molto superiori a quanto sarebbe “congruo”
rispetto ai valori storici. Il maggior valore
viene stimato attualizzando questi
“extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce
alla società il diritto a vedersi “rimborsare”
(e remunerare) il maggior valore per il solo
fatto di averlo iscritto a bilancio, in
pratica si raddoppiano gli extraprofitti:
oltre a pagarli come flusso si pagano anche
per il loro valore attuale!
UN GIUDIZIO COMPLESSIVO
Il sistema tariffario italiano è chiamato
price cap ma in
realtà è ben lontano dall’applicare tale
modello regolatorio (Coco & Ponti 2006).
Mentre si regolano le variazioni delle tariffe
non si è proceduto a determinare i livelli
congrui delle tariffe iniziali
sulla base dei capitali netti residui di
ciascuna commissionaria; non si specifica che
l’obiettivo della regolamentazione sia quello
di pervenire a una remunerazione “congrua” del
capitale netto investito (Rab – Regulated
Asset Basis), né che si debba riportare
la redditività al livello “congruo” alla fine
di ogni quinquennio (“claw back” dei
profitti), aspetto che è invece la
caratteristica essenziale della
regolamentazione tramite price cap.
Attribuire poi il “rischio traffico” ai
concessionari non introduce alcun incentivo
all’efficienza ma si è solo rivelato una fonte
di “extraprofitti” per le prudentissime
previsioni inserite nei piani finanziari.
E’ evidente che la nuova regolamentazione
tariffaria è stata pensata principalmente, se
non esclusivamente, al fine di
massimizzare il ricavo della
privatizzazione di Autostrade. A tal fine, non
era certo opportuno indicare né un “tetto”
alla remunerazione “congrua” sul capitale
investito, né come si dovesse determinare il
capitale netto investito (Rab). Con la
convenzione del ’97 sono state d’altronde
concesse alla sola Autostrade anche due
clausole di particolare favore: il recupero
dell’inflazione (negato alle altre
concessionarie) e la limitazione della X al
massimo pari all’incremento del traffico nel
quinquennio precedente.
La “formula” ha lasciato nel vago i criteri
per la determinazione del parametro X aprendo
la porta a un elevato grado di arbitrarietà e
a “mercanteggiamenti” periodici tra l’Anas e
le singole concessionarie. La remunerazione
per la qualità, che non trova riscontro né in
Francia né in Spagna, appare “fantasiosa” e
genera incrementi tariffari che non hanno
alcun riscontro nei costi sostenuti per
ottenere i miglioramenti qualitativi; anche
questa clausola sembra pensata soprattutto per
incrementare i ricavi prospettici delle
concessionarie ed in particolare di
Autostrade.
Nel complesso, i risultati conseguiti dalla
regolazione delle autostrade italiane dal 1997
ad oggi sembrano davvero fallimentari.
Non si ha evidenza di miglioramenti
significativi nell’efficienza di costo, al di
là dell’applicazione di sistemi automatici di
esazione già avviati nel periodo precedente (e
i costi delle nostre concessionarie sembrano
molto maggiori di quelli francesi, vedasi
paragrafo 3.3). Gli investimenti
previsti, sulla base dei quali le
concessionarie ottennero nel 1999 lunghe
proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo
successivo) e incrementi di tariffa, non sono
stati realizzati se non in piccola parte. Le
concessionarie hanno invece registrato enormi
extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale
investito largamente eccedenti non solo
rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche
rispetto agli stessi generosi livelli previsti
nei piani finanziari.
UN VENTENNIO DI “CUCCAGNA”
Tentiamo qui una sintesi di quanto precede,
e il termine “cuccagna”, usato dal ministro Di
Pietro, sembra il più appropriato per indicare
ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio.
La costruzione della rete autostradale
italiana è stata finanziata pressoché
interamente a debito grazie
anche alla garanzia con la quale lo Stato
assicurava i debiti delle concessionarie
perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi
tutte erano considerate “pubbliche”. Le
concessioni erano basate sulla logica della
tariffa-remunerazione. I pedaggi
dovevano servire a coprire i costi operativi e
l’ammortamento dei debiti con i quali veniva
finanziato l’investimento. La legge 463 del
1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei
ricavi oltre una contenuta remunerazione del
capitale investito venisse devoluta allo
Stato; questo principio veniva ribadito e
rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed
in leggi successive, sino al 1993.
Finito il grosso degli investimenti a metà
anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie
erano già state in grado di rimborsare i
debiti finanziari e di ottenere una buona
remunerazione sul capitale proprio versato (di
regola modestissimo). Molte convenzioni
avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90
per avvenuto integrale recupero del capitale
investito (…). Ma quasi due terzi della rete
apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri
aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva
venirgli dalla Autostrade (definita al tempo
la “gallina dalle uova d’oro” dell’Iri). Il
resto della rete, con la sola eccezione della
Torino-Milano, era di proprietà di province e
comuni e quindi anch’essa “pubblica”. E’
questo che spiega o giustifica l’incredibile
generosità dello Stato-regolatore, che proroga
“gratuitamente” concessioni in scadenza,
mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta
l’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni
monetarie.
Per massimizzare il ricavo dalla cessione di
Autostrade la sua convenzione viene prorogata
(in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può
esimersi dal concedere generose proroghe anche
alle altre concessionarie allora considerate
“pubbliche”, anche se oggi si definiscono
“private” e vantano i loro diritti
contrattuali dimenticando tutti i “regali”
ricevuti in passato proprio in quanto
possedute da province e comuni. Ancora per
massimizzare il ricavo dalla cessione di
Autostrade viene introdotta la “formula” di
revisione tariffaria detta price cap
che “regala” ad ogni concessionaria il
“diritto” di mantenere il livello tariffario
del 1999 e accrescerlo secondo la “formula”
sino alla scadenza della concessione, senza
alcun riferimento a quale fosse nel 1999 il
capitale netto residuo da ammortizzare. La
fortuna di Gavio è di essere entrato nel
settore poco prima del “banchetto” offerto
dallo Stato (alle spalle degli utenti) per far
incassare all’Iri più soldi possibile.
Insomma, a parte il caso Autostrade, per
l’acquisto della quale gli azionisti hanno
versato dei soldi veri (tanti o pochi…), quasi
tutte le altre concessionarie hanno da tempo
più che largamente recuperato e remunerato il
(modestissimo) capitale originariamente
versato dagli azionisti e i diritti che oggi
accampano riflettono essenzialmente “regali”
ricevuti a più riprese dallo Stato,
nell’ultimo ventennio.
Basta dare un’occhiata ai bilanci
delle concessionarie italiane per vedere che
il valore residuo dell’autostrada è ormai
generalmente una quota modesta dell’attivo, e
in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le
rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione
degli interessi e di ogni altra possibile
spesa (vedasi il capitolo 5). Se si applica la
logica della tariffa-remunerazione i pedaggi
dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti
o azzerati. Si potrebbe anche applicare la
tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare
per l’assegnazione delle concessioni con
questa logica non sono mai state fatte, né le
concessionarie hanno mai pagato il “biglietto”
per questa scommessa. Manca dunque un’origine
storica per la legittimità dei diritti che
oggi esse accampano.
Quasi tutte le concessionarie, avendo
rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono
trovate, già a partire dagli anni ’90, con
flussi di cassa rilevanti e stabilmente
crescenti che non avevano opportunità di
impiegare nella costruzione di nuove
autostrade (…). Le concessionarie
“parapubbliche” (controllate da enti locali)
hanno investito questa liquidità in strumenti
finanziari e diversificando gli investimenti
in altri settori (…). Gavio ha invece usato
questi ampi flussi di cassa per accrescere la
propria quota nel capitale delle partecipate e
soprattutto per acquisire altre partecipazioni
nel settore; egli ha costruito il suo “impero”
con un impegno iniziale minimo di capitale, e
ha acquistato in pochi anni tutte le
partecipazioni facendo leva sui flussi di
cassa delle società stesse (vedasi paragrafo
5.1).
Analogamente, Schemaventotto (la società che
controlla Autostrade), tramite l’Opa e il
“progetto mediterraneo” (paragrafo 4.7) ha
accresciuto la propria quota di Autostrade spa
dal 30 al 63 per cento, addossando alla
concessionaria (e quindi agli utenti che
pagano i pedaggi) l’onere del rimborso del
debito contratto per finanziare l’Opa.
Schemaventotto ha poi mantenuto il 51 per
cento e ha rivenduto il 12
per cento rientrando così in buona parte dei
soldi versati all’Iri per il 30 per cento
acquistato al momento della privatizzazione.
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