In
un intervista rilasciata di recente al quotidiano La
Repubblica il presidente della Confindustria
Piemontese si dichiarava pronto a organizzare una marcia
Pro Tav. Scopo della manifestazione quello di
sensibilizzare la popolazione sull’importanza strategica
della Linea ad Alta Velocità. Parole condivise dal sindaco
di Torino Sergio Chiamparino e da Emma Marcegaglia,
vicepresidente di Confindustria. Il primo si dichiara
addirittura pronto a incatenarsi al ministero dei lavori
pubblici nel caso il progetto non dovesse partire. La
seconda, pragmatica come tutti gli industriali, si limita
a pensare ad una iniziativa per informare i cittadini dei
comuni toccati dal progetto. Queste dichiarazioni
ovviamente non arrivano a caso, ma precedono la conferenza
del 16 Ottobre tra i rappresentanti delle regioni
interessate e il successivo calendario di attività del
governo sulla questione. Tutti questi esponenti del
“movimento” favorevole all’Alta Velocità dicono di avere a
cuore le sorti dell’industria italiana e del suo sviluppo.
A questo punto, vista l’enfasi dimostrata nel propagandare
l’idea del corridoio 5. è lecito chiedersi se sia poi così
vero che il progetto è fondamentale per la ripresa
economica.
Iniziamo con una serie di valutazioni di carattere
puramente tecnico sull’impatto economico del progetto
attuale sul territorio piemontese. Gli attuali tracciati
prevedono che la linea passi a Nord di Torino ed è in fase
di progettazione una stazione dedicata ai mezzi AV in quel
di Venaria, nella prima cintura torinese. Da qui poi il
tragitto sale verso la Val Di Susa, per interrarsi a
Venaus.
Questo pone un problema logistico non da poco: si lascia
fuori il neonato interporto di Orbassano. Una struttura di
interscambio strada-ferrovia, ritenuta inizialmente
cruciale sia dalla giunta Bresso che da quella precedente
di Ghigo, costata 20 milioni di euro. Nella foga di
iniziare i lavori di scavo, nessuno ha pensato a un
collegamento adeguato con questa area strategica per le
merci provenienti dal porto di Genova (semplicemente il
più importante porto del Mediterraneo per volume di
traffico).
Già questa, in apparenza minima, variazione rende
necessaria la creazione di due cosiddette “bretelle” per
collegare la stazione di Venaria all’Interporto e questo
alla linea Alta Velocità.
Certo, si potrebbe obbiettare che si tratta di un
dettaglio marginale in una struttura ben realizzata e
necessaria per mantenere i collegamenti con l’Europa.
Vale la pena a questo punto soffermarsi su tale aspetto.
Sfatiamo un primo mito: l’Italia è collegata con l’Europa.
I più possono non essersene accorti, ma il Belpaese è
collegato con la sola Francia in almeno tre punti: Frejus,
Montebianco e Ventimiglia. Ognuno di questi collegamenti è
sia stradale che ferroviario. Questo senza considerare
quindi i trafori presenti sul resto del versante alpino.
Scopo della linea Alta Velocità dovrebbe essere sia
consentire un rapido viaggio per i passeggeri, sia
garantire una maggiore efficienza nei trasporti, spostando
il traffico merci da gomma a rotaia.
Sull’ultimo punto, purtroppo per Chiamparino, gli studi
della Conferenza Inter-Governativa (CIG) parlano di un
passaggio da strada a ferrovia non superiore allo 0,6%.
Insomma l’effetto sui famosi TIR che ingolfano la Val Di
Susa (che sono una triste realtà), sarebbe risibile.
Oltre ad essere sostanzialmente inutile dal punto di vista
dell’inquinamento da CO2, la nuova linea presenta numerose
pecche anche sul discorso passeggeri. A meno di non voler
credere che il traffico pendolari tra Torino e Lione sia
consistente, ci si deve arrendere all’evidenza che in
questi anni la tecnologia è andata avanti e ha permesso di
inventare un mezzo di trasporto chiamato aereo e di
viaggiare sulle cosiddette linee low-cost a prezzi
concorrenziali, se non inferiori, a quelli del TGV.
Non rimane quindi che il discorso sullo sviluppo portato
dalle infrastrutture. In realtà la moderna sociologia
economica ha smentito questa tesi, individuando il motore
del progresso economico in altri fattori, senza cui si
rischia solo di costruire cattedrali nel deserto. La TAV
in Val di Susa corre questo richio? Sotto molti aspetti
si, o perlomeno c’è il fondato sospetto che giaccia
fortemente sotto-utilizzata, per un semplice motivo: già
l’attuale linea ferroviaria è sfruttata solo al 40%.
Addirittura il tonnellaggio negli ultimi anni è
progressivamente diminuito. Questo perché il sistema
produttivo italiano ha subito sostanziali modifiche negli
ultimi trent’anni. E’ quasi lapalissiano fare notare che
l’industria pesante si è da tempo spostata in altre aree
del globo, difficilmente quindi i nostri treni
trasporteranno sbarre d’acciaio.
Un riammodernamento con raddoppio della capacità della
linea storica costerebbe circa un decimo al nostro paese
della spesa prevista per il solo faraonico tunnel di
Venaus. Il perché questa proposta sia così fortemente
invisa non è dato saperlo. Gli stessi dati economici sugli
scambi europei mostrano quanta poche siano le aziende
interessate a spedire le proprie mozzarelle ai 250km/h
fino a Lisbona o a Kiev, le due stazioni terminali del
celebre Corridoio 5. Come ulteriore motivazione di
contrarietà al progetto c’è il dato lampante che il
traffico merci non segue una direttrice est-ovest, ma
bensì nord-sud. Cosa che i governi italiani ben sanno,
tanto è vero che sono da poco finiti i lavori di
miglioramento al tunnel del Gottardo, con la conseguenza
di avere ulteriormente aumentato la capacità di carico
delle nostre Alpi.
Ultimo punto in ordine di analisi, ma primo per quanto
riguarda i singoli cittadini è quello finanziario, in
particolar modo gli oneri che lo stato si deve accollare
per la creazione del nuovo traforo. Attualmente il costo
previsto per la parte italiana si attesta sui tredici
miliardi di euro. Più o meno la somma che Padoa Schioppa
prevede di utilizzare per risanare le finanze italiane.
I sostenitori della TAV sono convinti che questa cifra si
può sensibilmente ridurre grazie all’intervento di
capitali privati. Il problema è che il settore privato ben
si guarda dall’investire in questo progetto. In economia,
secondo le logiche di mercato cui si rifanno
principalmente i membri di Confindustria, solitamente
questo è indice di sfiducia in una proposta. Quindi lo
stesso settore che fortemente chiede allo Stato di
investire nell’alta velocità ferroviaria, si guarda bene
dal rischiarci i suoi capitali limitandosi ad attendere
gli enormi appalti che dovrebbero piovere nel caso venisse
realizzata la linea.
Uno dei motivi per cui ritengono rischioso l’investimento
è che esiste già un esempio di tunnel ad alta velocità,
quello sotto la Manica. Un esperimento così fortunato da
essere stato ricapitalizzato già due volte e che è tutt’ora
in rosso. Tale “buco nell’acqua” unisce due città come
Londra e Parigi, circa 8 milioni di persone l’una, una
platea di potenziali clienti che si calcola quindi in
numeri a sei cifre. Eppure è in passivo. Nel frattempo i
53 km di tunnel necessari a collegare due megalopoli come
Torino e Lione costeranno più di 60 milioni annui di
manutenzione, cioè quanto costerebbe raddoppiare la linea,
ancora ad un solo binario, tra Catania e Caltanissetta.
Ad un occhio attento insomma la linea ferroviaria ad Alta
Velocità Torino-Lione altro non appare che un gigantesca
truffa ai danni dei contribuenti. L’unica speranza è che
lo Stato nella persona del Ministro Di Pietro, quando non
sia impegnato a invocar manette, si renda conto di quanto
questo faraonico progetto rischi di rivelarsi l’ennesima
cattedrale nel deserto.
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