È durata
cinque anni, solo cinque anni, l’unificazione dei ministeri delle
Infrastrutture (già Lavori pubblici) e dei Trasporti. Con il
secondo Governo Prodi si è tornati all’antico. Un affrettato decreto legge
(181/06) ha consentito di spartire le competenze tra i due nuovi ministri
Antonio Di Pietro e Alessandro Bianchi. Anzi no, perché il decreto lascia
alcune zone d’ombra, tanto che ciascuno dei due ministri ha
cominciato subito a rivendicare la propria autorità su questo o quel tema in
pieno contrasto con le rivendicazioni dell’altro. E poiché quasi tutti i
temi che riguardano trasporti e infrastrutture sono "caldi" ci sarà da
vederne delle belle. Si pensi alla delicatissima questione della Tav
Torino-Lione, a quella del Ponte sullo stretto di Messina, che peraltro
veniva già bocciato dal
programma elettorale dell’Unione, a quella della regolazione delle
autostrade. Tutte questioni che hanno a che vedere sia con le infrastrutture
che con i trasporti.
I nodi non sciolti dall’unificazione
L’unificazione dei ministeri era nata dalla convinzione,
espressa compiutamente nel Piano generale dei trasporti tuttora
formalmente vigente, che le infrastrutture andassero programmate, valutate,
finanziate e costruite in funzione delle necessità presenti e
dell’evoluzione prevista dei servizi che le utilizzano. Sembrerebbe un
principio elementare, ma soltanto l’avvio del disegno di razionalizzazione
amministrativa dell’allora ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini,
permise a un principio tanto elementare di trovare il suo riconoscimento
istituzionale. (1)
Sfortuna ha voluto che il primo ministro delle Infrastrutture e dei
Trasporti fosse Pietro Lunardi, il cui interesse era concentrato quasi
esclusivamente sulle prime, date anche le sue indiscutibili competenze
professionali (e gli altrettanto indiscutibili interessi imprenditoriali) in
materia di gallerie. Così, eccezion fatta per la meritoria introduzione
della patente a punti e per il varo (proprio allo scadere della legislatura)
del Patto e del Piano per la logistica, i trasporti hanno conosciuto
una legislatura di governo in tono minore, affidati com’erano a
sottosegretari di assai diverse capacità politiche e competenze tecniche.
Non a caso, la crisi endemica dell’Alitalia non è stata affrontata, se non
cambiando tre volte il vertice aziendale, chiamando in soccorso le banche
per un’improbabile ricapitalizzazione (con ampie garanzie dello Stato) e
varando infine un provvedimento improvvisato e di dubbia utilità come quello
sui "requisiti di sistema", il decreto legge 211/05. Non a caso, la
situazione economica della holding Fs si è andata aggravando, mentre la
qualità percepita dei servizi ferroviari è andata declinando e i ritardi dei
treni pendolari sono cresciuti fino a provocare fortissime proteste degli
utenti. Mancanza di indirizzi chiari e di azioni decise a favore della
liberalizzazione (insieme a una continua
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oscillazione normativa) hanno permesso a Regioni e comuni di mantenere
gli affidamenti diretti alle proprie aziende di trasporto locale, mentre il
Governo si faceva coinvolgere nuovamente nel finanziamento dei rinnovi
contrattuali degli autoferrotranvieri. La conflittualità sindacale non è
diminuita in nessun comparto dei trasporti e, anzi, ha raggiunto punte
drammatiche come nel dicembre 2003 (trasporto locale), o nell’estate 2005 e
nei primi mesi del 2006 (Alitalia). (2)
La scarsa attenzione ai servizi di trasporto ha finito per portare a
scelte assai discutibili anche sul piano delle infrastrutture, privilegiando
con la Legge Obiettivo grandi opere di
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dubbia utilità sotto il profilo dei trasporti, oltre che
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difficilmente sostenibili per la finanza pubblica; e distorcendo le
scelte degli enti locali a favore di opere costose e non certo prioritarie
per risolvere i più gravi
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problemi di traffico locale.
Quale cultura dei trasporti
Insomma, l’unificazione dei ministeri delle
Infrastrutture e dei Trasporti non ha dato buona prova. Ma non perché l’idea
fosse sbagliata, piuttosto perché sbagliati erano gli uomini che avevano il
delicatissimo compito di avviare l’esperimento. Non perché ci sia stata
troppa unificazione, ma perché è rimasta troppa separazione.
Accantonata la riforma Bassanini (e accantonato lo stesso Bassanini, non
rieletto al Parlamento e non inserito nella squadra di Governo), si è
tornati alla separazione e i due ministri hanno cominciato subito a
bisticciare. Per di più, il neo-ministro dei Trasporti – pur confessando
alla stampa di non avere grandi competenze in materia – ha subito detto che
di altre liberalizzazioni non se ne parla proprio, perché i servizi
pubblici devono essere gestiti da aziende pubbliche. Ha così manifestato una
cultura piuttosto datata. Purtroppo, si tratta di una cultura tutt’altro che
incompatibile con il programma elettorale dell’Unione in materia di
trasporti.
Si può solo sperare che il vertice del Governo riesca a esprimere una forte
capacità di direzione politica.
(1)
Decreto legislativo 300/99.
(2) Si veda in proposito il libro di Pietro Ichino A che cosa
serve il sindacato, Mondadori, 2005
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