Di che cosa ha bisogno l’Europa, di campioni nazionali o europei? Questa
domanda è apparsa su numerosi giornali da quando alcune autorità e governi di
paesi membri dell’Unione Europea sono intervenuti per ostacolare la fusione di
imprese nazionali con imprese di altri paesi. I casi sono fin troppo noti:
Antonveneta/Abn, Unicredit/Hvb, Suez/Enel, solo per citarne alcuni. L’argomento
ha perso le prime pagine dei giornali, ma la questione resta attualissima.
Campioni?
Prima di parlare di campioni nazionali o europei è necessario fermarsi a
riflettere un momento sull’idea stessa di “campione”. Non mi risulta che ne
esista una definizione scientifica, ma nel linguaggio comune si tratta di una
impresa che si vuole favorire per permetterle di vincere nella competizione
internazionale, da cui il termine “campione”. In quest’ottica, fusioni tra
imprese nazionali sono da alcuni giudicate essenziali per la creazione di
campioni nazionali, mentre concentrazioni cross-border, cioè tra imprese di
diversi paesi dell’Unione, sono per altri la chiave di volta per la nascita di
campioni europei.
Mentre in passato i processi di fusione riguardavano essenzialmente imprese
americane e inglesi, negli ultimi anni il fenomeno è cresciuto in Europa sia per
il valore economico delle imprese che si integrano, sia per aver incluso settori
finora esclusi come le utilities, sia perché attualmente riguarda in maniera
crescente concentrazioni cross-border. (1)
Le fusioni sono una conseguenza dell’integrazione economica del continente e
della globalizzazione che provoca simultaneamente l’aumento della dimensione del
mercato e delle pressioni competitive. Ciò spinge le imprese in diversi settori
a fondersi e ristrutturarsi nel tentativo di guadagnare efficienza, che si può
ottenere attraverso economie di scala, o di diminuire la concorrenza.
Infatti, le concentrazioni hanno principalmente due effetti contrastanti sul
benessere sociale. Agli aumenti di efficienza, che in ultima analisi si
riflettono su prezzi più bassi, corrisponde un aumento del potere di mercato
delle imprese che si integrano, il che ha l’effetto di segno opposto sui prezzi.
Più precisamente, in assenza di guadagni di efficienza, una fusione aumenta il
potere di mercato delle imprese che si integrano, che possono alzare i prezzi di
vendita con ricadute positive sui profitti, e riduce il benessere dei
consumatori (il surplus del consumatore) e della società in generale. Il
discorso però cambia se una concentrazione tra due imprese ne aumenta
l’efficienza: a un incremento di competitività, per esempio dovuto a una
riduzione dei costi per unità di prodotto, corrisponde una riduzione dei prezzi
e un aumento del surplus del consumatore e del benessere sociale. Inoltre, la
recente analisi teorica ed evidenza empirica mostra un secondo rischio: è
necessario un livello sufficiente di competizione per stimolare l’innovazione e,
quindi, l’efficienza stessa. (2) In generale, quindi, l’effetto di
concentrazioni tra imprese è ambiguo e dipende dall’entità degli aumenti di
efficienza indotti dalle fusioni.
Le discussioni sui campioni alla luce di questa analisi perdono di
significato e rischiano di diventare pura retorica. Da un punto di vista
sociale, il problema non è di promuovere campioni nazionali o campioni europei,
ma di bloccare quelle concentrazioni che portano a bassi incrementi di
efficienza e di avallare quelle per cui la perdita di competizione sul mercato è
più che compensata da un aumento di efficienza nella produzione.
Governi e campioni
Allora perchè in Europa governi nazionali ostacolano le fusioni cross-border
e insistono sull’utilità dei campioni nazionali? In una unione internazionale
come l’Unione Europea, le considerazioni di governi nazionali e autorità
dell’Unione possono differire. (3) Ciò avviene per due ordine di ragioni.
Primo, i governi nazionali rispondono al proprio elettorato e prendono in
considerazione solo l’effetto delle fusioni sul benessere nazionale. A
differenza della Commissione europea, che ha il dovere di vigilare sulla
concorrenza nell’Unione, i governi nazionali non si sentono responsabili per gli
effetti anti-competitivi delle concentrazioni, se non per quella frazione di
consumatori che risiedono nel proprio territorio. Spesso più determinanti sono
le considerazioni sui profitti delle imprese: per il governo di un singolo
paese, gli effetti sui profitti sono rilevanti solo se le imprese (e la
proprietà) sono situate sul proprio territorio. In sintesi, esistono delle
genuine valutazioni economiche che spingono governi nazionali a far ricorso alla
retorica dei campioni nazionali e promuovere concentrazioni di imprese nazionali
che sono talvolta inefficienti da una prospettiva sovranazionale. Come esempio,
si consideri il caso limite in cui una fusione, inefficiente dal punto di vista
dell’Unione, avviene tra due imprese situate in un piccolo paese e che esportano
la quasi totalità del prodotto. La fusione ha un effetto positivo sui profitti
delle imprese, per via dell’aumento del potere di mercato, e negativo sui
consumatori. Solo il primo effetto viene preso in considerazione dal governo
nazionale, poiché i consumatori sono per lo più cittadini di altri paesi
dell’Unione.
Il secondo ordine di ragioni per cui governi nazionali sono portati a
preferire concentrazioni nazionali è legata alla “politica dei campioni”. A
differenza dei consumatori, che rappresentano un interesse diffuso, le imprese
hanno la capacità di organizzarsi politicamente e influenzare le decisioni dei
governi. Questo contrasto tra interessi particolari dei produttori e generali
dei consumatori è ormai un classico della recente letteratura economica che
trova applicazioni e conferme nella teoria del commercio internazionale, nella
teoria della regolamentazione, oltre che alla politica antitrust e industriale.
In questo contesto politico, un governo nazionale può essere indotto a usare la
retorica dei campioni nazionali per appoggiare concentrazioni che sono
inefficienti sia dal punto di vista dell’interesse generale dell’Unione che da
quello nazionale, solo perchè ciò favorisce alcune lobby industriali. Ciò sarà
maggiormente vero in quei settori che per propria natura sono politicamente più
sensibili, come energia e servizi bancari. In una Unione divisa, considerazioni
politiche più che economiche inducono i governi nazionali a ostacolare
aggregazioni cross-border a favore di concentrazioni nazionali.
Campioni nazionali o europei dunque? Nessuno dei due. L’Unione deve
promuovere concentrazioni efficienti di imprese – dove “efficiente” ha il chiaro
significato di avere guadagni di efficienza che compensino per l’aumento di
potere di mercato del nuovo soggetto – e bloccare le fusioni che non
corrispondono a questo criterio. Il ruolo della Commissione nel promuovere un
sistema industriale competitivo e libero dal concetto vuoto di “campione” è
essenziale.
(1) European Economic Advisory Group at CESifo, 2006, Report on the European
Economy 2006, CESifo, Univeristy of Munich.
(2) Aghion, P., N. Bloom, R. Blundell, R. Griffith e P. Howitt, 2005,
“Competition and Innovation: An Inverted-U Relationship”, Quarterly Journal of
Economics, 120, 2, 701-28.
(3) Motta, M. e M. Ruta, 2006, Merger Politics in an International Union,
Work in Progress, European University Institute.
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