Incostituzionalita', irragionevolezza, inefficienza e tradimento del fine dichiarato. Questi i principali rilievi del Centro Studi "Alberto Pisani" della Camera Penale di Roma, Coordinato dall'Avv. Francesco Petrelli, rispetto al ddl sul processo breve.
Per i penalisti romani, lo strumento della "estinzione del processo per violazione dei termini di durata ragionevole" risulta del tutto inadeguato al raggiungimento dello scopo dichiarato di garantire al cittadino processi di ragionevole durata, "dimenticandosi che il processo non deve essere necessariamente 'breve' ma per l'appunto di 'ragionevole durata'" e cioe' "commisurato alle esigenze dell'accertamento penale". Inoltre, non si puo' immaginare che un processo sia breve' "a scapito della qualità dell'accertamento giurisdizionale, né appare auspicabile che si insegua questo obbiettivo del 'processo breve' realizzando 'processi sommari'".
Per il centro studi, il meccanismo previsto dal DDL "risulta al tempo stesso irragionevole ed inefficace, in quanto, in particolare, agisce esclusivamente sulla determinazione della durata massima delle singole fasi processuali (primo grado, appello e giudizio di legittimità) senza sanzionare con analogo meccanismo la durata eccessiva della fase procedimentale delle indagini preliminari. E' difatti, spesso, proprio questa fase procedimentale... a consentire inammissibili ritardi nell'esercizio dell'azione penale, con il conseguente determinarsi di lunghissimi tempi morti fra effettiva conclusione delle indagini ed esercizio dell'azione. Tali gravissime inefficienze - da tempo denunciate - del sistema processuale, proprie di tale fase, restano del tutto irragionevolmente irrisolte".
Inoltre "determinare una eguale durata di due anni, sia per la fase dibattimentale, che spesso implica una istruttoria complessa ed articolata, che per la fase dell'appello, che - salvo ipotesi di parziale rinnovazione ai sensi dell'art. 603 c.p.p. - si risolve nella maggior parte dei casi in una sola udienza di discussione, risulta francamente incomprensibile. Analoghe considerazioni valgono ovviamente per la successiva fase relativa al giudizio di legittimità". Rilevando altre incongruenze analoghe, i penalisti romani notano che una "così irragionevole scansione del termine di fase induce a ritenere che a fronte di una inevitabile scelta fra 'compressione' del diritto alla prova ed estinzione del processo, si sarà indotti ad operare salvataggi processuali a scapito della completezza dell'accertamento dibattimentale (magari immaginando correzioni ortopediche in un senso o nell'altro da parte del giudice dell'appello)".
Fra gli altri rilievi, i penalisti criticano la previsione di applicare la legge soltanto ad una data serie di reati e commentano che essa "appare assolutamente irrazionale e configgente con un elementare principio di uguaglianza". In particolare, "Restano esclusi da ogni sanzione reati per i quali l'accertamento delle responsabilità in sede processuale appare assai semplice e che solitamente non implica attività dibattimentali complesse: come ad esempio il reato di "clandestinità", ovvero quello di pornografia minorile (per la quale, casomai, possono essere necessarie investigazioni più complesse) o l'incendio (...), e le stesse ipotesi di furto (...). Ovvero reati di difficile collocazione sia quanto ad allarme sociale, sia quanto a gravità, sia quanto a complessità di accertamento".
"Se, inoltre, il criterio di esclusione fosse ad un tempo quello del coinvolgimento di interessi diffusi nella collettività e della complessità dell'accertamento dibattimentale delle singole responsabilità - rileva il centro Studi - stupirebbe la esclusione dal termine dei reati 'commessi in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni e dell'igiene sul lavoro e delle norme in materia di circolazione stradale' e non invece delle ipotesi di 'colpa professionale medica' che appaiono caratterizzate da identiche complesse modalità di accertamento e che appaiono avere identico impatto sociale".
Fra vari rilievi tecnici riguardanti soprattutto le esclusioni, i penalisti romani commentano che "riesce francamente incomprensibile come possa operarsi una distinzione tra imputati incensurati o imputati comunque raggiunti da precedenti. In questo la legge mostra il suo più evidente profilo di incostituzionalità (in relazione all'art. 3 ed all'art. 111 comma 2 cost.) venendo ad introdurre una irragionevole disparità di trattamento tra imputati, non giustificata da alcun razionale criterio di distinzione all'interno di quella medesima categoria dei cittadini che dichiaratamente si intende "tutelare", con evidente lesione del principio di eguaglianza".
La critica dei penalisti inerisce quindi non solo al metodo prescelto (che ancora una volta è quello - più volte censurato - degli interventi inorganici e settoriali, che finiscono con l'accentuare gli squilibri e con l'arrecare al sistema più disfunzioni e deformazioni che utili ed efficaci correttivi) ma anche al merito del meccanismo processuale introdotto dal nuovo art. 346 bis c.p.p., che "da un lato mostra profili incolmabili di incostituzionalità, e dall'altro denuncia i limiti inaccettabili di una complessiva filosofia che da tempo sostiene le riforme in campo processuale".
Per il Centro Studi, "Appare, infine, del tutto irragionevole immaginare di poter intervenire con simili strumenti 'draconiani' senza al tempo stesso intervenire sulla razionalizzazione e semplificazione dell'intera macchina processuale, sull'alleggerimento del carico processuale, attraverso una seria depenalizzazione, un 'diritto penale minimo', ed una equilibrata attuazione di un principio di 'obbligatorietà attenuata' dell'azione penale. Irragionevole immaginare di poter abbreviare i tempi del processo al di fuori di una seria razionalizzazione delle risorse e dei finanziamenti, ed una riorganizzazione delle strutture giudiziarie e dell'intero ordinamento giudiziario".
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