“Tripoli come Tunisi. Tripoli come il Cairo”, urlano i manifestanti
che dalla notte scorsa occupano le strade della capitale libica.
“Tripoli non è Tunisi o il Cairo”, ha detto ieri sera in TV il figlio
secondogenito del colonnello Gheddafi, Saif-Al-Islam,
nel tentativo disperato di riprendere in mano la situazione. Hanno
ragione, in fondo, entrambi. La rivolta libica assomiglia a quelle
tunisine ed egiziane – per spinta ideale e obiettivi politici – ma
molto diverso è il contesto in cui prende forma e si sviluppa.
Simile alle tre “rivoluzioni” è la voglia di disfarsi di un dittatore
da troppo tempo attaccato al potere. Gheddafi guida
la Libia dal colpo di stato del 1969. Hosni Mubarak
ha governato l’Egitto per trent’anni; Ben Ali ha
dominato in Tunisia per ventitre. Simile è la rabbia per la corruzione
di élite dirigenti che cercano di replicare se stesse e mantenere i
privilegi in famiglia. Se i figli di Mubarak e Gheddafi erano pronti a
succedere ai padri, Ben Ali aveva nella giovane moglie Leila la più
probabile erede. Simile è l’uso rivoluzionario che gli insorti hanno
fatto dei social networks. Ancora ieri, domenica, i giovani libici
utilizzavano Twitter e Facebook per comunicare con i loro coetanei
egiziani e far arrivare viveri e medicinali al confine orientale.
Simile è infine il carattere generazionale delle tre rivolte (e in
fondo di tutte le rivolte cui stiamo assistendo in questi giorni).
L’età media in Egitto è di 24 anni; di 29 in Tunisia. In Libia il 50%
della popolazione ha meno di 15 anni. Le rivolte mediorientali sono
quindi imponenti moti di giovani che vogliono cambiamento, libertà,
opportunità sinora negate (e che vogliono, soprattutto, prendere il
posto dei loro padri e nonni).
Diverso è invece il contesto storico e nazionale da cui hanno preso
forma le proteste. Tunisia ed Egitto presentano un carattere etnico, e
una cultura nazionale, più omogenei e definiti rispetto alla Libia.
Senza un vero collante nazionale – se non il brutale colonialismo
italiano – i libici tendono ancora a identificare se stessi come
membri di una tribù, o di un clan, piuttosto che cittadini di uno
Stato. Lo stesso colonnello Gheddafi ha governato attraverso un
Consiglio di Comando Rivoluzionario di 12 membri e una complessa rete
di alleanze e rivalità tribali tenute insieme dal carisma del capo e
soprattutto dai proventi del petrolio. Questa struttura tribale e
frammentata si riflette anche nella composizione dell’esercito, che
manca della forza e dell’autorità dei loro corrispettivi tunisino e
soprattutto egiziano. In Libia sono stati i Comitati del Popolo e la
polizia a esercitare un ruolo più unificante. Ma nessuna delle due
entità, troppo legate al regime, può gestire la transizione.
Di qui tutti i rischi della rivolta libica, e i timori di
deflagrazione civile per il futuro. Questa indeterminatezza è ciò che
ha sinora nutrito le ambiguità dell’Italia. Non c’è stato infatti
soltanto il “non disturbo Gheddafi” di Silvio Berlusconi,
ma anche la proposta lanciata ieri in un’intervista al Sole24Ore
di Massimo D’Alema, che ha chiesto di far gestire la
transizione democratica allo stesso colonnello. Affermazioni e
proposte lontane dalla realtà, che rivelano l’interesse italiano per
la sorte dell’”amico” Gheddafi. L’Italia è legata a Tripoli da una
fitta rete di legami politici ed economici. Nell’agosto 2008
Berlusconi e Gheddafi hanno firmato a Benghasi un accordo di
cooperazione per cui, in cambio di compensazioni economiche per i
disastri dell’occupazione coloniale, la Libia si è impegnata a
bloccare il flusso di migranti dal Nord Africa verso le coste
italiane.
L’Italia è inoltre il principale partner commerciale della Libia. Nel
2010 Roma ha esportato in Libia merci per 2,38 miliardi di euro, e ha
importato per 10,6 miliardi (di cui 7,1 miliardi
costituiti da greggio). La lista delle società italiane che hanno
investito in Libia, o che hanno soggetti libici nel proprio
azionariato, è lunghissima. Eni, che ha a lungo esitato prima di
annunciare un parziale rientro dei suoi lavoratori, è il primo
operatore internazionale in Libia, con 244 mila barili prodotti in
Libia ogni gorno (il 13% circa della produzione del gruppo).
Finmeccanica, Saipem, Astaldi, Impregilo, hanno firmato o stanno per
firmare lucrosi contratti nei settori delle infrastrutture,
dell’edilizia, delle forniture militari. Il 7,5% del capitale di
Unicredit è detenuto dalla Libia. E la Lybian Arab Foreign Investiment
Company (Lafico) ha una quota del 2% in Fiat.
Si comprendono quindi le perplessità e i timori italiani, espressi
anche oggi, nella riunione dei ministri degli esteri UE a Bruxelles,
da Franco Frattini che, disperatamente, ha cercato di evitare una
condanna troppo dura del regime libico. “Nessuna imposizione di
modelli esterni in Libia”, ha detto Frattini, per una volta fautore di
un relativismo culturale che in questo caso difende un regime
dispotico e illiberale.
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