Il
sequestro di una nave italiana con alcuni marinai italiani a bordo,
ha riportato sui nostri media l'attenzione per i pirati.
Un'attenzione selettiva, perché pur essendo somali, della Somalia si
parla pochissimo, nonostante sia da anni teatro di tragedie che
fanno impallidire terremoti e altre disgrazie. Ma nel nostro paese
c'è poco interesse per il destino dei poveri, a maggior ragione se
sono negri: migliaia di migranti muoiono da anni nei nostri mari
senza suscitare la minima commozione, mentre il governo si fa sempre
più ostile nei loro confronti. Lo dimostra la prima storia di mare,
quella di uno dei tanti barconi affondati tra la Libia e la Sicilia
agli inizi di aprile. Si parlò allora di quasi duecento dispersi in
un naufragio, ma la notizia venne passata insieme al “salvataggio”
di un altro barcone stracolmo di gente da parte della nostra marina.
Tutto vero, ma i “dispersi” che fine hanno fatto? I dispersi sono
diventati ufficialmente morti pochi giorni dopo, nel numero esatto
di duecentotrentasette. Numero esatto perché nonostante un diffusa
convinzione contraria, ciascun migrante ha un passato, una storia,
famiglie che non vedrà più e che ora li piange.
In televisione e sui giornali abbiamo visto il salvataggio, la
notizia della strage, invece, è passata quasi inosservata, nessuna
immagine degli oltre cento cadaveri spiaggiati in Libia dopo la
disgrazia, nessuna commozione o riflessione. perché quel naufragio
ha fatto da solo lo stesso numero di vittime del terremoto dell'Abruzzo,
ma diversamente dal terremoto, naufragi come questo si ripetono con
frequenza regolare e impressionante. I sopravvissuti a quel
naufragio sono stati raccolti, rinchiusi in un carcere (!), curati
alla meno peggio e poi rispediti via. Il ministro dell'interno
Maroni si è vantato dell'espulsione di ben quarantuno migranti
nell'ultima settimana; una soave presa per i fondelli, visto che in
una settimana, solo dalla Libia, ne arrivano a centinaia e ancora di
più considerando che i disperati che tentano la traversata sono una
frazione ridicola dai migranti che giungono nel nostro paese
attraverso strade meno pericolose.
Propaganda e severità che servono solo a ingannare quegli elettori
che i migranti non li possono vedere, propaganda e severità
assassine, che negli ultimi anni hanno provocato la morte di
migliaia di persone solo in quel braccio di mare. Per loro, questo
paese tanto solidale e intriso di tanta umanità e virtù cristiane,
non ha organizzato nemmeno un funerale o una cerimonia in ricordo.
Nemmeno Bruno Vespa ha voluto fare audience con il racconto del
naufragio, delle lunghe ore passate in mare aggrappati a un pezzo
del relitto o inquadrando il loro dolore. Il mare è una dimensione
purtroppo sconosciuta a gran parte dell'opinione pubblica, solo chi
è andato per mare può avere la percezione di cosa significhi nei
fatti quella traversata, con quelle imbarcazioni tanto cariche.
Anche la Somalia è una dimensione sconosciuta, così finisce che le
storie della Somalia ce le raccontano come ci raccontano quel che
accade nel Canale di Sicilia.
Ieri i due maggiori quotidiani del paese ci raccontavano due storie
diverse, anzi tre, partendo dall'unico sequestro di un rimorchiatore
italiano. Lucio Caracciolo scriveva su La Repubblica,
citando altri, che quei pirati “con il mare hanno poco a che fare,
l'arte della navigazione l'hanno imparata per necessità”. Sono “un
manipolo di pastori o mercenari al soldo dei locali signori della
guerra. Abitano capanne di fango, bevono latte di cammella, ma i
loro capi sanno adoperare internet e i sistemi satellitari di
rilevamento, sono in grado di compiere transazioni bancarie e hanno
contatti internazionali da Nairobi e Dubai che gli consentono loro
di riciclare i soldi il denaro degli abbordaggi”. Un classico
esempio di svalutazione dell'altro, notoriamente inferiore e che
vive ancora nelle capanne, salvo qualche furbastro che, incredibile,
è capace di usare computer e telefonini. La questione del
riciclaggio dei riscatti poi è del tutto insussistente, visto che il
denaro dei riscatti è diviso tra molti e che in Somalia non c'è
nessuno che controlli e punisca chi è in possesso di denaro
proveniente da imprese criminali.
Il Corriere della sera invece descriveva, con Alberizzi,
una struttura professionale. I pirati parlano inglese e sono
preparatissimi, quasi sbilanciato all'opposto, mentre con Guido
Olimpio si premurava di raccontarci che i pirati si sono alleati con
gli islamisti radicali, i “terroristi” affiliati ad Al Qaeda.
Ipotesi che Olimpio veicola da tempo, ma che si scontra con una
realtà per la quale i pirati rincorrono i soldi e non hanno mai
fatto uno straccio di comunicato politico vagamente accostabile alla
retorica degli “islamici”, o praticato atti ascrivibili in qualche
maniera a quel genere di “terrorismo” che il Corriere della Sera
cerca di propinare da anni. In questo senso è coerente elevarne lo
status, così da renderli più minacciosi e credibili come parte del
big complotto musulmano.
In realtà un messaggio politico i pirati lo hanno lanciato per bocca
dei leader locali delle cittadine e dei clan associati nella
pirateria; lo hanno lanciato già molto tempo addietro, ma il
messaggio non è piaciuto e allora quasi nessuno si è incaricato di
trasmetterlo alle opinioni pubbliche occidentali. Dicono i somali
che la pirateria nasce di necessità e che i pirati sono i pescatori
somali rimasti senza lavoro. Non per colpa della crisi e nemmeno per
colpa delle guerre, ma per precise responsabilità nazionali e
internazionali.
La comunità internazionale non ha alcuna influenza in Somalia, che
da anni vive di riflesso le sole iniziative politiche americane.
Invasa da Bush padre a fine mandato con una missione “umanitaria”
(alla quale l'Italia si accompagnò coprendosi di disonore), invasa
ancora dall'Etiopia su mandato di Bush figlio, contro i
“terroristi”, la Somalia è rimasta per oltre quindici anni senza
governo. Ora ne sta mettendo insieme uno a fatica, quello cacciato
dagli invasori etiopi un paio d'anni fa, che si trova però a dover
combattere con i “veri” estremisti fanatici islamici, cresciuti e
fortificati proprio nella resistenza all'invasore etiope, un altro
grande successo strategico della War On Terror.
Che al Corsera non abbiano ancora smesso di cercare
d'infilare Al Qaeda dappertutto è stucchevole prima che ridicolo,
tanto più che dal Dipartimento di Stato la signora Clinton parla
esplicitamente dei pirati come di “criminali comuni”, escludendo
matrici terroristiche, mentre a Via Solferino rimangono nella
trincea di una guerra che non c'è più come i famosi giapponesi
dimenticati nelle isole del Pacifico. Forse a Olimpio è sfuggito
pure che il Dipartimento di Stato ha anche annunciato ufficialmente
che non si parlerà mai più di “War on Terror”.
Negli ultimi quindici anni nessuno ha controllato le acque
territoriali della Somalia, che così sono state invase fin sotto
costa dai pescherecci dei paesi industrializzati prima e dai rifiuti
dei paesi industrializzati poi. Immondezzaio internazionale, la
Somalia era la destinazione preferita dei rifiuti tossico-nocivi
quando ancora aveva un corrottissimo governo. Quando questo è caduto
ed è diventato troppo pericoloso raggiungere l'entroterra somalo per
seppellirli, si è presentata la possibilità di buttare direttamente
in mare i rifiuti nelle acque somale. Tragicamente più economica e
priva di rischi, mancando qualsiasi autorità marittima somala e la
legittimità di altre marine all'intervento.
Non basta. Quando si verificò lo tsunami nell'Oceano Indiano, l'onda
arrivò anche in Somalia. Arrivò inattesa, ore ed ore dopo che per i
media di tutto il mondo lo tsunami era diventato la notizia del
giorno. Nessuno pensò neppure di avvertire i somali, decine di enti
e istituzioni monitoravano la situazione, ma l'onda arrivò inattesa
a portarsi via qualche centinaio di somali. Dietro l'onda i più
sfrontati operatori del settore buttarono a mare tutto quello che
avevano, l'attenzione era altrove e in caso di guai sarebbe stata
colpa dello tsunami. I villaggi dei pescatori somali senza pesce, si
sono ritrovati pure con mare e acque inquinate dal peggior cocktail
di rifiuti industriali del mondo, non diluito neppure dall'immensità
marina.
Migliaia di abitanti delle coste somale oggi muoiono e soffrono di
malattie da contaminanti che in teoria nel paese non esistono
nemmeno; non ci sono le industrie, ma ci sono le malattie
dell'inquinamento industriale. Malattie là sconosciute e incurabili,
data la condizione del paese. Nessuno nella “comunità
internazionale” ha mai pensato di soccorrere quelle persone e
nemmeno di proteggere le coste somale dai pescecani stranieri, si fa
la faccia feroce contro il sintomo, la pirateria, mentre si è
complici del diffondersi della malattia. Così al popolo dei
pescatori non è rimasta che la pirateria, ma i leader somali l'hanno
detto da tempo a una sola voce: ridateci il nostro mare e il nostro
pesce, lasciateci formare un governo che non sia deciso altrove e la
pirateria sparirà. Una voce che non ci hanno trasmesso o che non
vogliamo ascoltare, preferendo storie ridicole dei pirati che vivono
nelle capanne di fango, di feroci terroristi e altre amenità in
ordine sparso.
Nella realtà i pirati somali non uccidono, non praticano violenza
gratuita, non diffondono video di prigionieri decapitati e in genere
trattano abbastanza bene i marinai catturati nei lunghi mesi di
prigionia. Nessun fanatismo, solo un business alternativo, l'unico
praticabile. Tutto abbastanza comprensibile, chiunque nei panni di
un uomo al quale hanno rubato il mare, unica fonte di sostentamento,
farebbe un pensierino alle migliaia di navi che trasportano
l'opulenza mondiale passando davanti a casa sua. Per questo la
pirateria somala gode del consenso popolare, per questo intere
cittadine sono solidali e collaborano con i pirati nell'unico
business praticabile.
Ci vuole una discreta abilità marinaresca per spingersi per
centinaia di miglia nell'Oceano Indiano a bordo di piccole
imbarcazioni e, dopo giorni di navigazione molto pericolosa, ad
abbordare, con funi e rampini, navi molto più grosse se non enormi,
ma è così che i somali vanificano i pattugliamenti internazionali.
Ci sono alcune decine di navi da guerra di diversi paesi nell'area,
ma parliamo di una zona di un milione di chilometri, per pattugliare
la quale sarebbero necessarie trecento navi a detta degli esperti,
dove ce ne sono cinquanta da diversi paesi. L'intera flotta
statunitense ne conta duecentocinquanta, numeri troppo spesso
ignorati da quanti invocano la mano pesante dal pulpito
dell'ignoranza, i fan della repressione come rimedio universale a
tutti i mali.
Così i sequestri si susseguono e ogni abbordaggio ha la sua storia;
c'è la nave carica di armi per i nemici del governo sudanese, c'è la
petroliera immensa e ci sono centinaia di navigli catturati più o
meno a caso. Ci sono quelli nel Golfo di Aden, che attaccano il
transito per il Canale di Suez dalla Somalia e dallo Yemen, dove
centinaia di migliaia di somali hanno cercato rifugio con una
pericolosa traversata simile a quella dalla Libia all'Italia. Poi ci
sono quelli nell'Oceano Indiano che attaccano la rotta attorno
all'Africa, come nell'abbordaggio recente alla nave americana, colta
per caso al largo da quattro somali impegnati nel lungo rientro a
casa dopo aver accompagnato una nave sequestrata nella sua
liberazione al largo. Attacco improvvisato e risultato pessimo,
l'equipaggio ha reagito e la situazione è andata in stallo, risolta
solo dal capitano che si è offerto in ostaggio.
Ora la nave è al sicuro in Kenya, mentre i quattro somali e il
capitano sono a bordo di una scialuppa di salvataggio della stessa,
che procedeva lentamente verso la Somalia senza nessuna speranza di
arrivarci, tenuti d'occhio dalla USS Bainbridge, un incrociatore
americano che a bordo ha armi a sufficienza per distruggere una
città o mettere in fuga un esercito. Le trattative si sono arenate
sulla pretesa americana di arrestare i pirati. Lo stallo si é
risolto con un'azione di forza: tre pirati sono morti e il capitano
é salvo.
Simile l'approccio dei francesi, che hanno “liberato” una barca da
diporto sparando, con il risultato di uccidere uno degli ostaggi.
Sarkozy cercava lo spot a buon mercato e l'ha trovato mettendo in
gioco le vite di una famiglia che aveva scelto la barca per “fuggire
dalla civiltà”, con un naviglio commerciale non se lo sarebbe potuto
permettere. C'è da scommettere che i familiari “liberati” del morto
avrebbero preferito il pagamento del riscatto. Molti di quanti
invocano l'intervento armato non hanno la minima idea della
situazione sulla quale si esprimono, per alcuni sarebbe anche
plausibile attaccare le città della costa per stroncare il fenomeno,
Sarkozy è solo uno dei tanti che cerca di costruirsi l'immagine del
decisionista. Il sequestro dei nostri connazionali, dovrebbe invece
risolversi con il versamento del riscatto, vista la tradizionale
avversione italiana all'intervento di forza e le esperienze
pregresse. Decine di casi confortano questa previsione.
Resta lo sconforto per lo stato dell'informazione nel nostro paese e
ancora di più per il desolante approccio dei governi occidentali
verso gli abitanti dell'ultimo mondo. Si raccontano favole e si
diffonde propaganda sulla pelle degli ultimi, fidando sullo stesso
velato razzismo che ci porta ad ignorare le stragi di migranti in
mare e ad accettarle implicitamente come il prezzo della propaganda
di questo o quel partito impegnato a fingersi paladino degli
italiani e disposto a sacrificare migliaia di vite, nel Canale di
Sicilia come altrove, per mostrare agli elettori qualcuno può a
tutelarli dall'invasione straniera e dalla minaccia “islamica”.
Rimedi inverosimili a minacce inverosimili.
Tragico, il sacrificio di questa gente e di questi popoli passa
inosservato, quelle stragi non esistono, nemmeno i drammi della
Somalia e dell'Africa esistono, se non possono essere
strumentalizzati per motivi di politica interna dalla parte più
retriva e incosciente della politica e dei media. Nessun accenno
alle responsabilità del primo mondo, nessuna analisi seria, le
ragioni e la stessa esistenza di questi popoli sono rimosse e le
loro disgrazie diventano cibo per gli avvoltoi della Lega o dei
cattolici schierati sul fronte inesistente dello scontro di civiltà.
I soliti guerrieri di carta, disposti a pagare il prezzo di questa
politica in vite umane, sempre a patto che si tratti di quelle degli
altri, che valgono di meno delle nostre, nemmeno il prezzo di un
funerale o di due righe sul giornale.
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