Le modalità del rilascio di Daniele Mastrogiacomo dimostrano
ciò che vado sostenendo da tempo. Che si può pensare ciò che si vuole del
movimento Talebano ma non si può considerarlo né un movimento banditesco né
terrorista. Quando hanno fermato il giornalista italiano, l'interprete e
l'autista lo hanno definito un «arresto» perché i tre, secondo la loro
prospettiva, si erano introdotti ille galmente nel territorio da loro
controllato. L'autista era una spia perché, in una situazione analoga quando
aveva accompagnato un giornalista per un'intervista a un comandante talebano,
aveva fornito agli inglesi le coordinate del luogo dove si trovava
consentendogli di catturarlo.
E l'hanno giustiziato come si fa, in guerra, con le spie. Accertato invece che
né Mastrogiacomo né l'interprete erano spie non hanno richiesto denaro o «aiuti
umanitari» ma uno scambio di prigionieri . Come si fa in guerra. Mastrogiacomo
l'hanno trattato duramente, a causa delle condi zioni di fficilissime in cui si
trovano ad operare (sono settimane che la Nata sta bombardando il sud
dell'Afghanistan) ma con correttezza e, come avevano fatto con una giornalista
inglese durante l'attacco americano del 2001, l'hanno restituito fisicamente
integro.
Del resto non si capisce da dove derivi questa bolla di infamia di movimento
terrorista affibbiata ai Talebani. Non c'era un solo afgano nei commandos che
attaccarono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non un solo afgano è stato trovato
in seguito nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Ci sono arabi saudi ti,
yemeniti, giordani, egiziani, tunisini, marocchini, ma non afgani. La pratica
terrorista è estranea alla cultura e alla tradi zione afgana e quindi talebana.
Non si registra un solo atto di questo tipo, tantomeno kamikaze, durante i di
eci anni di pur impari conflitto con gli invasori sovietici. E se dagli inizi
del 2006 anche la guerriglia talebana ha cominciato a far uso di terrorismo -
niente comunque in confronto con quanto avviene in Iraq - è per due ragioni
sostanziali.
1) Cinque anni di presenza occidentale in Afghanistan hanno inquinato la loro
cultura più di quanto avessero fatto i sovietici in dieci.
2) L'esasperazione e la frustrazione di dover battersi con combattenti che non
combattono, ma con macchine, con aerei come i Predator e i Dardo americani, che
non hanno equipaggio ma missili micidi ali, i cui piloti, copiloti e puntatori
stanno comodamente seduti a una consolle, manovrando il tutto da Nellis nel
Nevada.
Nonostante questo, si sa che cè un forte contrasto fra il mullah Omar, il leader
carismatico del movimento, che è contrario, in armonia con la cultura afgana, ad
attacchi terroristici che «colpiscano anche civili innocenti», e uomini come
Dadullah che, agendo sul campo, possono vantare l'efficacia di simili metodi (e
sono abbastanza convinto che se Mastrogiacomo ne è uscito indenne è perché il
canale di Gino Strada era Omar che durante gli anni in cui era al potere lasciò
lavorare liberamente Emergency).
La colpa dei Talebani è di essersi trovati in casa, al momento dell'attacco alle
Torri Gemelle, Bin Laden, questo ricchissimo e ambiguissimo arabo saudi ta che
proprio gli americani avevano piazzato da quelle parti e foreggiato in funzione
antisovietica. Ma Bin Laden era un problema anche per loro. Tanto è vero che
quando Bill Clinton propose ai Talebani di ucciderlo si mostrarono di sponibili.
Il braccio destro del mullah Wakij, si incontrò due volte segretamente col
presidente americano, il 28 novembre e il 18 di cembre 1988, e gli propose di
fornirgli le coordi nate esatte del luogo dove si trovava Bin Laden perché
potessero colpirlo. Ma la responsabilità, spiegò Wakij, dovevano assumersela per
intero gli americani, lasciando fuori il governo di Kabul, perché Osama in
Afghanistan aveva costruito ospedali, scuole, strade, ponti, godeva quindi di
grande prestigio presso la popolazione che non avrebbe accettato un suo
assassinio per mano talebana. Ma inspiegabilmente Clinton, che pur aveva preso
l'iniziativa, all'ultimo momento rinunciò.
In ogni caso sono passati sei anni e Bin Laden non è stato preso e non è più
possibile sostenere che gli americani e i loro alleati sono ancora in
Afghanistan per dargli la caccia. Sono truppe di occupazione. Così almeno le
considera l'88\% dei maschi afgani interpellati dal britannico Senlis, uno dei
più importanti centri studi di politica internazionale. Né è lecito di re che,
Bin Laden o no, stiamo facendo la guerra ad Al Quaeda. Secondo lo stesso Senlis
«nel movimento insurrezionale afgano... Al Quaeda non riveste un ruolo
significativo».
Adesso emergono anche sui medi a occidentali, sia pur timidamente, le ragioni
per cui a suo tempo i Talebani si affermarono in Afghanistan e perché ottennero
l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Perché tagliarono le
unghie ai «signori della guerra» che, dopo di eci anni di conflitto con i
sovietici, erano di ventati più feroci che mai e vessavano la popolazione,
taglieggiando, rubando, rapinando, ammazzando, stuprando. Talebani riportarono
la legge e l'ordi ne, sia pure una dura legge e un duro ordi ne, nel Paese. Cosa
che cercano di fare anche ora nelle zone da loro controllate impedendo gli
arbitri della corrottissima polizia afgana (formata peraltro da poveracci che
hanno accettato questo pericolosissimo ingaggio per potersi sfamare). Ma questo
punto non è più nemmeno una questione talebana, con tutta evidenza è la rivolta
di un popolo fiero e orgoglioso che non ha mai accettato occupazioni di
stranieri, che li ha sempre cacciati come fece con gli inglesi e, recentemente,
con gli invasori sovietici. Non è più una guerra talebana, è una guerra di
popolo, dove ai Talebani si mischiano coloro che talebani non sono mai stati.
Questa è la realtà. Continuare cocciutamente a pignorarla è un errore che ci
potrebbe costare caro.
Massimo Fini
www.massimofini.it
Archivio Mastrogiacomo
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