Finalmente
un anno che si apre con una buona notizia: il Governo
italiano si è formalmente impegnato ad avviare la
procedura per la moratoria universale della pena di morte,
il più deleterio ed inutile tra gli strumenti di
giustizia. Viene però da chiedersi come mai ci sia voluta
l’esecuzione di Saddam Hussein per indurre il governo
italiano e buona parte dell’opinione pubblica mondiale a
prendere una posizione tanto netta contro la pena
capitale, dal momento che le esecuzioni, soprattutto negli
Stati Uniti - da dove è partito l’ordine di giustiziare
l’ex-rais - sono ormai una cosa talmente comune da non
meritare neppure un trafiletto sul giornale. Il comunicato
di Palazzo Chigi lascia sperare che molto presto le
ignobili visioni di esseri umani che agonizzano appesi ad
una corda o rantolano sul lettino dell’iniezione letale
apparterranno alla storia.
Non sarà semplice per Roma rompere il muro che separa il
diritto dall’autonomia degli Stati, come ha
preventivamente ricordato il neo Segretario Generale. Per
dirla in termini più precisi, non sarà semplice, anzi
probabilmente impossibile. Perché impossibile sarà
convincere la presidenza di turno russa del Consiglio di
Sicurezza e, ancor più, convincere Washington ad una
moratoria. Se nella Russia di Putin persino l’ombra del
diritto interno è stato derubricato agli interessi del
nuovo zar e sotto le macerie della Cecenia giacciono i
“principi democratici” della nuova Russia, negli Usa di
Bush è ancora peggio. Sulla pena di morte, sul diritto
alla sua applicazione da parte dello Stato, s’intrecciano
convincimenti ideologici e interessi elettorali, ambedue
elementi importantissimi della vicenda politica
statunitense. In misura ancora maggiore quella dell’ascesa
al potere di George W.Bush.
Saddam Hussein era stato processato in un clima grottesco
da nemici dichiarati oltre che alleati della potenza
straniera che quasi quattro anni fa invase l’Iraq. Il
prezzo pagato dal popolo iracheno è stato altissimo:
settecentomila vite perdute, migliaia di vedove ed orfani,
caos economico, perdita dei valori culturali, malattie e
tutto quanto di negativo può avvenire in un paese dove
l’esistenza dei suoi abitanti è appesa a fili invisibili.
Non era molto difficile prevedere che per Saddam Hussein
non ci sarebbe stata clemenza, soprattutto se si considera
che il vero regista della sua morte è un uomo come George
Bush, tuttora detentore del record di mandati di morte
firmati, più di qualsiasi altro governatore americano.
Dopo una vittoria elettorale ottenuta grazie ai danarosi
amici paterni, l’attuale presidente americano prese
possesso della Governor’s Mansion inaugurando il suo
mandato con una festa da mille e una notte. Verso la
mezzanotte, proprio quando la festa aveva raggiunto il suo
culmine, a pochi chilometri di distanza faceva il suo
ingresso nella camera della morte Mario Marquez, un
immigrato di origine messicana con un quoziente
intellettivo pari a quello di un bambino di otto anni. Un
gruppo di testimoni che avevano assistito all’esecuzione
uscì dall’edificio dei Walls talmente sconvolto da non
riuscire a rispondere neppure alle domande dei
giornalisti.
Nei quattro anni che seguirono, la cadenza delle
esecuzioni assunse un ritmo frenetico. Supportato dal
procuratore generale del Texas, Alberto Gonzales, oggi
ministro della Giustizia degli Stati Uniti d’America,
George Bush selezionò accuratamente i nomi delle persone
da giustiziare affinché risultassero utili alle sue
ambizioni politiche. La camera della morte del Texas
divenne talmente famosa che molte nazioni straniere
organizzarono delegazioni a cui venne affidato il compito
di osservare da vicino i metodi instaurati da Bush nel suo
stato.
Nel giugno del 2000, dopo 18 lunghi anni passati a
protestare la sua innocenza, venne messo a morte in Texas
Gary Graham. Accusato di aver ucciso Bobby Lambert, un
informatore della polizia che si era fatto decine e decine
di nemici nella malavita, a 18 anni Graham si era trovato
al centro di una delle storie criminali più dibattute
nella storia degli Stati Uniti. Nel 2000, anno elettorale,
Bush lo fece giustiziare in modo che la sua morte potesse
servire da trampolino politico alla sua candidatura alla
presidenza. Gary Graham, afro americano, era inviso a
parte dell’opinione pubblica americana perché fondatore
assieme ad altri detenuti di un movimento di matrice
marxista interno al braccio della morte del Texas e la sua
esecuzione costituì anche un monito per gli altri
condannati a morte a non farsi affascinare da idee
disapprovate dalle autorità. Feci una breve visita a
Graham la mattina del cinque giugno 2000, 15 giorni prima
della sua morte, e mi confidò di sperare ancora di
riuscire a dimostrare la sua innocenza. Tutti sapevano, e
George Bush per primo, che l’arma trovata in possesso di
Gary Graham NON era quella che aveva ucciso Bobby Lambert
ma nel clima di terrore che regnava allora in Texas si
trattava solo di un particolare insignificante.
Nel 1997 e nel 2000, George Bush ordinò le esecuzioni di
altri due malati di mente: Terry Washington e Oliver Cruz,
entrambi con uno sviluppo intellettivo fermo agli anni
dell’infanzia.
Il 2000 è anche l’anno in cui Bush diventa presidente,
assumendosi il compito di guidare il paese nei primi anni
del terzo millennio. Da allora non c’è praticamente più
stata linea di demarcazione tra sistema carcerario e
regolamenti militari. Gli aspetti militaristi della
sorveglianza penitenziaria si sono accentuati, le carceri
hanno adottato armi e dispositivi di sorveglianza
elettronica simili a quelli in dotazione all’esercito,
macchine a raggi x, sistemi di contenzione che in molti
casi hanno portato a morte i detenuti. Non è un caso se le
atrocità di Abu Ghraib hanno avuto tra i principali
protagonisti aguzzini importati dal sistema penitenziario
americano. Lane McCotter è un responsabile della
“Management and Training Corporation”, l’impresa che
costruì le mura di Abu Ghraib. Nel 1997, quando era
sovrintendente alle carceri in Ohio, un detenuto malato di
mente affidato alla sua custodia, morì soffocato perché
rimasto una notte intera legato alla famigerata “sedia del
diavolo”. Per ore ed ore il cadavere dell’uomo, che si
chiamava Michael Valent, venne abbandonato dai sottoposti
di Cotter nella sporcizia più degradante. Solo un mese
prima che Cotter fosse inviato in Iraq, su mandato
dell’allora ministro della Giustizia John Armstrong, era
stata avanzata contro di lui la tredicesima denuncia per
maltrattamenti inferti ai detenuti compresi quelli
rinchiusi nei reparti psichiatrici. Di tutto ciò, Bush ha
sempre detto di non aver mai saputo nulla. Una grave
mancanza per uno sceriffo del suo calibro, come pure è
grave il fatto che Bush fosse profondamente addormentato
nel momento in cui la testa di Saddam veniva infilata nel
cappio. Viene quasi il dubbio che più che un capo di
Stato, George Bush sia uno di quei mocciosi petulanti che
buttano tutto all’aria per dispetto quando perdono a
monopoli e poi pretendono che il pavimento lo ripuliscano
gli altri.
Archivio
30/12/2006 Archivio Saddam Hussein
|