Il 7 Dicembre 2006 l’agenzia Associated Press batteva le
parole, mai così veritiere, di George Bush: “It’s bad in
Iraq”. In Iraq la situazione è pessima. Questa
dichiarazione era pressoché contemporanea alla
pubblicazione del rapporto Baker, il documento bipartisan
che, nei fatti, boccia la linea sin qui adottata nel
gestire la guerra al terrore. Scrive infatti nelle proprie
conclusione la commissione: “Nonostante uno sforzo
massiccio, la stabilità in Iraq rimane un miraggio e la
situazione si sta deteriorando”. Pare insomma che l’intera
classe dirigente degli Stati Uniti si sia finalmente resa
conto della reale gravità in cui versa il paese occupato.
Forti di questa nuova consapevolezza negli Stati Uniti in
molti si adoperano a pensare ad una exit strategy
che permetta di salvare l’onore, il denaro e la pelle. E
non necessariamente in questo ordine.
Il già citato rapporto Baker parla della necessità di
“costruire un nuovo consenso internazionale per la
stabilità in Iraq e nella regione”. Si tratta quindi di un
ritorno al realismo “kissingeriano” tanto osteggiato dalla
lobby neo-con di Washington.
Ma in un certo senso si va oltre. Se per Kissinger
bastava, secondo il precetto maoista, sedersi sulla riva
del fiume ad aspettare il cadavere del nemico, per la
commissione bisogna coinvolgere il lato mediorientale
dell’asse del male nelle trattative. Questo approccio
rischia di essere perdente con l’Iran di Ahmedinejad, ma
lo stesso non si può dire per quella Siria di Bashar
Al-Asad, la cui alleanza con Teheran è puramente tattica e
che non vede l’ora di essere depennata dalla lista dei
cattivi senza peraltro dover fare nessuna concessione.
Anzi, magari ottenendo un tacito accordo con gli Usa per
tenerli fuori dalla politica interna libanese.
Naturalmente non tutti a Washington hanno accolto con
favore il rapporto Baker-Hamilton. In particolare il
Partito Repubblicano e i mezzi di informazione ad esso
collegati hanno espresso commenti e giudizi durissimi
sull’operato e sulle conclusioni della commissione.
In una intervista al quotidiano La Repubblica il
neo-conservatore Daniel Pipes definisce i dieci “saggi”
come degli “incompetenti” e dei “pensionati della
politica”. Meno diretto, ma egualmente esplicito, il
commento di John Kagan dalle pagine del Weekly
Standard, la bibbia neo-con. In un articolo
intitolato “Missing the obvious” il columnist accusa la
commissione di avere ben poco da aggiungere al dibattito
sulla exit strategy. E se il tabloid New York Post,
da sempre su posizioni conservatrici, titola “Baker’s
Sellout Plan”, accusando la commissione di volere attuare
una vera e propria svendita della lotta al terrorismo, è
invece ironico il titolo del National Review:
“Bentornati al 10 Settembre”, come dire che Baker e soci
non si sono accorti delle minacce globali che hanno
aggredito gli Stati Uniti.
Questa alzata di scudi non deve trarre in inganno, la
situazione ormai è talmente compromessa che anche la
destra americana ritiene che vi siano stati madornali
errori nella gestione del dopoguerra.
Solo che per questi intellettuali gli errori non stanno
nell’eccesso di unilateralismo adottato nella campagna
irachena prima e dopo, ma bensì nell’aver esportato la
democrazia troppo presto.
Bisogna quindi accantonare l’idea di trasformare l’Iraq in
un paese libero e democratico e preoccuparsi solo ed
esclusivamente dei sensibili benefici che l’occupazione
porta agli occupanti.
Sempre su La Repubblica, infatti, Daniel Pipes
sostiene che la Casa Bianca ha agito in maniera troppo
ideologica e poco pragmatica. Pertanto, secondo
l’intellettuale americano, è necessario rielaborare la
politica irachena in base agli obiettivi strategici. Agli
iracheni ci pensino gli iracheni, in parole povere. Magari
con un bel governo autoritario su posizioni filoamericane.
Il ritorno dell’uomo forte non è però una prerogativa del
solo Pipes. Anche Edgar N. Luttwak, analista
politico-militare noto praticamente solo al pubblico
italiano, sogna un Iraq retto con pugno di ferro
individuando addirittura un possibile candidato,
nientemeno che quel Saddam Hussein indicato come peggior
dittatore sulla faccia della terra non più tardi di
qualche anno fa. Tutto questo per la gioia di sciiti e
curdi, felicissimi di vedere tornare al potere colui che
li aveva perseguitati per quasi un quarto di secolo. A
tutti costoro fa sponda l’indipendente e già candidato
alla vicepresidenza coi Democratici nel 2000, Joe
Lieberman, che nei giorni scorsi ha criticato severamente
le idee della commissione riguardo al coinvolgimento di
Iran e Siria.
In questa giostra di soluzioni più o meno attuabili,
l’unico a non sbottonarsi è il diretto interessato: George
W. Bush. Il quale si limita ad aggiungere al “It’s bad in
Iraq” una frase ambigua e quasi paradossale: “Ho detto a
lungo al popolo americano quanto la situazione fosse
difficile e loro hanno capito quanto sia dura. La
questione è: abbiamo la capacità di cambiare come è
cambiato il nemico?”. Nei prossimi mesi, forse, riusciremo
a capire a cosa realmente si riferisca l’ansia di
cambiamento del Presidente americano. Nel mentre, l’Iraq
continua a bruciare.
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