I corpi delle vittime di Beit Hanun sbattuti
in prima pagina. Una scelta per sensibilizzare? Oppure
sentimentalismo a buon mercato per un mondo che non sa più passare
dall'emozione all'azione? Un'analisi...
La strage di
Beit Hanun è l’ennesimo episodio di sangue della Terra Santa. “Un
errore tecnico dell'artiglieria", ha spiegato il primo ministro
Israeliano Ehud Olmert. “Errore” che ha lasciato sul campo 18
civili palestinesi, tra cui donne e bambini, morti schiacciati
sotto le macerie delle loro case. E mentre cresce lo sgomento per
una pace che sembra ogni giorno più lontana, si rafforza la
convinzione che al di là della politica, a perdere sia in
definitiva la stessa dignità umana. Una convinzione sempre più
difficile da sostenere, perché in Terra Santa quando qualcuno
muore, deve ormai fare i conti con l’ideologia, le
strumentalizzazioni e un sensazionalismo, alimentato molto spesso
dai media internazionali.
Nemmeno le piccole vittime di Beit Hanun sono state risparmiate,
per essere sbattute in prima pagina dei quotidiani internazionali,
compreso l’italiano Corriere della Sera che ha pubblicato
a cinque colonne una foto sconvolgente. In primo piano, il corpo
di una donna, con il viso segnato dal pallore della morte. Vicino
a lei, i corpi dei suoi figli: un bambino di pochi mesi con un
sorriso accennato e una bimba di 6-7 anni con il volto sporco di
sangue. Sembra che dormano, ma in realtà sono sul ripiano di un
obitorio. Morti. L’assurdità della violenza si incarna così nelle
storie di persone con un nome e un cognome, colpevoli solo di
essersi trovati in casa al momento sbagliato.
La morte in prima pagina, però, serve davvero a qualcosa? Si
tratta di una scelta squisitamente editoriale che può essere
apprezzata o meno, ma che è senza dubbio scorretta sul piano
deontologico. A ricordarlo sono le tante carte di impegni
sottoscritte nel corso degli anni dai giornalisti italiani, a
cominciare dalla Carta di Treviso del 1990 che impegna a tutelare
in ogni caso (a maggior ragione quando ci sono episodi di morte)
la persona del minore. La più esplicita è forse la Carta dei
doveri del 1993 che tra i principi della professione include anche
un obbligo: quello di non “pubblicare immagini o fotografie
particolarmente raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di
cronaca, o comunque lesive della dignità della persona”. Al tempo
stesso, il giornalista, non “deve soffermarsi sui dettagli di
violenza o di brutalità, a meno che non prevalgano preminenti
motivi di interesse sociale”.

La morte in prima pagina. Corriere della Sera, giovedì 9
novembre
Si dirà che anche mostrare i cadaveri dei bambini è un modo per
perseguire un interesse sociale, sensibilizzando l’opinione
pubblica sulle contraddizioni della guerra e creare i presupposti
per un coinvolgimento della comunità internazionale, partendo dal
presupposto che nella storia del ‘900 le immagini hanno svolto un
ruolo importante: dai campi di sterminio nazisti alla bambina nuda
in fuga dai bombardamenti in Vietnam, passando per la strage del
mercato di Sarajevo.
Tuttavia, affrontare la sfida della sensibilizzazione su questo
terreno è rischioso, perché se si innesca la dinamica che porta
ognuno a mostrare i propri morti, nel circo delle opinioni,
peseranno sempre di più le categorie di giudizio, per non dire le
classifiche. Il vero problema è che la morte mediatica si rivela
come un trucco a buon mercato per ottenere risultati difficilmente
raggiungibili per altre strade: l’ingrediente pietistico ideale,
per una società che non sa più agire. Qualche anno fa, il
sociologo Luc Boltanski, nel suo “Lo spettacolo del dolore”,
descrisse bene le reazioni umane di fronte ad un episodio tragico,
riducendo il ragionamento a due paradigmi possibili: quello
dell’indignazione che scuote le persone e le porta a manifestare
il proprio stato d’animo in una denuncia e quindi in un’azione
(politica, sociale, ecc..). Oppure, quello dell’intenerimento,
proprio di coloro che magari vedono il bambino morto in TV, si
commuovono e riducono tutto al sentimento, o meglio al
sentimentalismo. È la logica sublimata dalle carrambate o dai
reality, che applicata al giornalismo, mette da parte
l’approfondimento e l’analisi cruda degli eventi e delle loro
cause (e quindi anche delle possibili risposte collettive e
individuali), ripiegando sull’emozione. Come se leggere su un
giornale della strage di 18 civili non fosse sufficiente a rendere
l’idea di quanto successo e a suscitare una reazione. Senza foto e
particolari crudi, paradossalmente, è diventato un problema
credere.
Peccato che la commozione non richieda un corpo da guardare, ma
soltanto un cuore e una mente che sappiano aprirsi alle ragioni e
ai problemi dell’altro. Con le loro scelte, il Corriere e
gli altri giornali lo hanno totalmente dimenticato.
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