Dopo decenni di sangue e di terrore, a Mogadiscio sembra essere scoppiata la
pace: ovviamente si tratta di una pace dal significato assai “ristretto” – come
scarni sono gli attributi democratici del paese – ma si tratta pur sempre di una
boccata di sollievo, che in quel paese significa passeggiare in una via senza
correre il rischio che qualcuno ti spari addosso.
Il “miracolo” è avvenuto perché delle misteriose “milizie”, d’altrettanto
sconosciute “corti islamiche”, si sono organizzate ed hanno cacciato dalla
capitale i “signori della guerra” che imperversavano da decenni.
Per capire la stranezza dell’evento dobbiamo per prima cosa tracciare i confini,
la cornice ed il contenuto del quadro somalo, per poi riflettere e chiederci se
la politica italiana può intervenire per aiutare a stabilizzare il paese,
ovviamente senza combinare i soliti “guai” delle “missioni di pace”.
Nell’intricata situazione somala, non sapremmo nemmeno tracciare un punto
d’inizio della vicenda: sin da quando il Khedive d’Egitto (formalmente
indipendente dalla Turchia dal 1847) – nella seconda metà dell’Ottocento –
amministrava con blandizia quei territori nel nome della Sublime Porta, l’area
era governata più da potentati locali che da entità statuali.
Il “disastro” somalo nacque proprio nella seconda metà dell’Ottocento, quando
Italia, Francia e Gran Bretagna si spartirono il Corno d’Africa ed i suoi
commerci: frutti tropicali, avorio, spezie, schiavi. Le necessità di spartizione
fra le potenze coloniali stravolsero la geografia politica di quei territori,
poiché cercarono d’ingabbiare in delle aleatorie entità statuali aree che si
distinguevano fra di loro soprattutto per l’appartenenza tribale.
La Somaliain
quanto tale iniziò ad esistere soltanto dopo la formalizzazione della colonia
italiana; esistevano a quel tempo diverse entità quali i tre sultanati di Obbia,
della Migiurtinia e Zanzibar (controllati dal Khedive egiziano), l’Ogaden
(sempre conteso dall’Etiopia),
la Somalia
Centrale , l’Abissinia, l’Oltregiuba (ceduto dagli inglesi agli
italiani negli accordi che precedettero
la Prima Guerra
Mondiale), l’Eritrea: insomma, un territorio che pareva una veste d’Arlecchino,
vista la grande frammentazione di tipo tribale che precedette l’intervento delle
potenze coloniali.
L’occupazione italiana durò ben oltre la fine del secondo conflitto mondiale,
poiché fu evidente che la Somalia non
era in grado d’esprimere una classe dirigente in grado di gestire autonomamente
il paese: fu una delle molte decolonizzazioni gestite dagli stessi
colonizzatori, operazioni a tinte chiare e scure, giacché al controllo militare
si sostituì quello finanziario. La difficoltà di gestire una fase di
decolonizzazione risiede principalmente nella debolezza delle classi dirigenti
locali (che nelle colonie è formata dagli stessi colonizzatori): si pensi che
all’indomani dell’indipendenza, in Tanzania, nel paese c’erano una dozzina di
laureati (quasi tutti medici) e circa 150 diplomati, quasi tutti maestri
elementari.
Proviamo a riflettere su cosa può significare gestire una nazione senza un solo
biologo, un ingegnere, un farmacologo, un geometra, un ragioniere, ma anche
senza un esperto saldatore, un motorista navale, ecc.
Dopo la fine del protettorato italiano (1960), nacque il primo luglio del 1960
la Repubblica Somala, con il primo Presidente Abdullah Osman Daar, ma già nel 1967 veniva spodestato
da Alì Shermanke che si proclamava Presidente della Repubblica. Nella notte tra
il 20 e il 21 ottobre 1969, dopo l'assassinio di Shermanke, un colpo di stato
militare – capeggiato dal generale Mohamed Siad Barre – pose fine alla
Repubblica Somala e lo stesso generale divenne capo del Consiglio Rivoluzionario
Supremo e Presidente della Repubblica. La dittatura di Siad Barre fu una delle
più sanguinarie che s’installarono in Africa dopo la decolonizzazione e tale
rimase fino al 1990, quando il despota fu cacciato da una insurrezione armata
capeggiata dal generale Aidid. Anche Aidid trovò però un feroce oppositore in
Mohamed Alì Mahdi; nel 1996 Aidid morì e gli subentrò il figlio Hussein: costoro
furono i principali “signori della guerra” che si contesero
la Somalia per
circa tre lustri.
Notiamo, a margine, il fallimento della missione militare congiunta
italo-americana del 1993: nonostante la supremazia tecnologica, le truppe dei
due paesi dovettero lasciare il paese per le forti perdite subite nei
combattimenti dell’estate, nei quali persero la vita una decina di militari
italiani. La “campana” somala – che suonò a morto più volte per statunitensi ed
italiani – avrebbe dovuto insegnare qualcosa: quello che oggi osserviamo in Iraq
è soltanto il seguito di quello che avvenne a Mogadiscio, ossia l’impatto di un
esercito super-tecnologico con la guerriglia urbana, alla quale non era e non è
assolutamente preparato.
Mentre i “signori della guerra” si contendevano il potere, sacrificando
sull’altare della guerra la poca ricchezza del paese, la popolazione precipitava
sempre di più nella miseria.
Le opere d’irrigazione costruite dagli italiani, gli edifici, le manifatture:
tutto è andato in rovina in questi decenni di sangue ed oggi, complice anche la
desertificazione che avanza, il paese vive oramai dei pochi aiuti internazionali
e di una misera agricoltura di sussistenza.
La Storia
prende nota con cura dei mutamenti politici, delle alleanze, degli obiettivi
strategici di presidenti e dittatori: spesso si dimentica degli “umori”, della
vita stessa delle popolazioni.
La vita di tutti i giorni, per i somali, nell’ultimo mezzo secolo è stata un
inferno: faremmo un grave errore nel credere che popolazioni “abituate” a
decenni di guerra si “stabilizzino” in quello state di cose; fanno di necessità
virtù, ma sperano sempre che l’inferno finisca, e – talvolta – operano per
mettere fine ad una situazione quando diventa insostenibile.
Mentre i “signori della guerra” scatenavano attacchi e ritorsioni per il
controllo del territorio, lo Stato in quanto tale si estingueva e, con esso,
anche i cardini della vita sociale: sanità, istruzione, giustizia.
Eppure, anche nel bel mezzo di decenni di guerra si nasce e si muore, ci si
ammala e si fa all’amore: nascono figli, bisogna arrabattarsi per sbarcare il
lunario e – come spesso accade – si litiga.
Anche in mezzo alla guerra si litiga per il possesso di una casa o di un pozzo,
per un torto subito, per un furto: senza la giustizia dello Stato, i somali si
sono “arrangiati” con il poco che la tradizione forniva loro per superare
l’impasse della paralisi statale.
Non dimentichiamo che la struttura statale, lo Stato con la “S” maiuscola – per
popolazioni vissute per secoli sotto re-pastori, sultani o feudatari – è più
sovrastruttura che struttura. In altre parole, la mancanza di uno stato
centrale è stata in qualche modo “assorbita” dalla tradizione e dalle
consuetudini.
Una delle tradizioni del mondo islamico è quella della giustizia popolare, che
spesso – con l’applicazione della sharia, la legge islamica tradizionale
– ha condotto ad esecuzioni sommarie e feroci quali lapidazioni, impiccagioni o
gente sgozzata dopo giudizi alquanto carenti sotto il profilo delle garanzie.
Per la visibilità internazionale che ha assunto l’applicazione della sharia
in questi anni, potremmo concludere che si tratta di un’involuzione del diritto,
e per alcuni aspetti (soprattutto legati ai diritti delle donne) così è.
C’è però un aspetto positivo nel carente diritto islamico, ossia che per le
questioni di minore importanza – legate alla proprietà, ai rapporti fra le
persone, alla criminalità cosiddetta “minore” – in un panorama d’assenza dello
Stato questo diritto “dei poveri” riesce a funzionare anche in condizioni
d’estrema difficoltà, perché si basa sul Corano e su un compendio di tradizioni
tramandate attraverso i secoli.
Le stesse fatwe – tristemente note come condanne a morte emanate spesso
in contumacia (si pensi a quella emessa dagli ayatollah iraniani contro lo
scrittore Salman Rushdie) – sono solo un aspetto del diritto islamico: migliaia
d’altre fatwe trattano gli argomenti più disparati, legati alla vita di
tutti i giorni delle popolazioni, una specie di “Codice Civile” transnazionale e
con radici antiche.
Spesso, noi occidentali confondiamo uno shaik con un mullah, senza
sapere a cosa corrispondono quei titoli nella struttura sociale musulmana:
ebbene, gli Al-Hakim corrispondono ai nostri Del Giudice, ossia sono cognomi che
indicano la discendenza da un giudice.
Nella dissoluzione totale dello stato somalo post-coloniale, in mezzo a guerre
ed a massacri, a chi poteva rivolgersi la popolazione per dirimere dissidi
legati al diritto d’accesso ad un pozzo, alla proprietà di un immobile, insomma,
a tutto ciò che da noi è regolato dal Codice Civile?
La popolazione stessa ha eletto – senza complicati meccanismi, soltanto perché
la persona scelta dimostrava di conoscere il diritto islamico tradizionale – i
giudici destinati ad amministrare quel minimo di giustizia civile che, anche in
un paese sconvolto ogni giorno da massacri ed omicidi, deve sopravvivere.
Con il trascorrere degli anni, è apparsa evidente alla popolazione la profonda
discrepanza fra quel diritto – sì povero, scarsamente erudito ed un po’ naif – e
lo spettacolo che potevano osservare nelle strade di Mogadiscio: bande armate
che depredavano ed uccidevano secondo l’umore e gli ordini di un qualsiasi
capataz locale.
Lentamente, è aumentata la fiducia verso i giudici “scalzi” che riuscivano
almeno a mantenere un embrione di coesione sociale mentre lo stato –
identificato con i “signori della guerra” – era proprio colui che frantumava
ogni forma d’aggregazione con il sopruso e l’omicidio.
Il passaggio dalla semplice gestione della giustizia alla politica, in realtà,
non è mai avvenuto: nella Mogadiscio “liberata” dalle milizie delle corti
islamiche, il primo atto “politico” è stato chiedere al governo ufficiale somalo
(esule da decenni in Kenya) di rientrare per prendersi carico nuovamente della
nazione.
Come si può notare, la vicenda manca proprio di una strategia politica, dacché
le milizie delle corti islamiche che hanno cacciato dalla capitale i “signori
della guerra” sono raggruppamenti spontanei, una sorta di vera milizia popolare,
senza nessun “signore della guerra” che la comanda.
Immediatamente, da Washington è giunto il sospetto che dietro alle milizie delle
corti si celino Al-Qaeda ed il terrorismo internazionale: difficile affermare se
così è e quali possano essere i legami con la struttura transnazionale islamica,
perché non ci sono personaggi o fatti che indichino con certezza l’esistenza di
quel legame.
Nell’ottica di Al-Qaeda,
la Somalia non
sembrerebbe un “boccone” molto appetibile, giacché ha vicini potenti (Kenya ed
Etiopia) succubi del governo USA: difatti, a pochi giorni dalla liberazione di
Mogadiscio, già si segnalano movimenti di truppe dall’Etiopia verso le aree
meridionali somale.
In passato, Osama Bin Laden ebbe interessi commerciali nell’area del Corno
d’Africa ma più nell’interno, soprattutto in Sudan, mentre le aree costiere sono
troppo esposte per installarvi strutture d’addestramento o rifugi per i
guerriglieri.
Più probabile è invece una contiguità con
la Fratellanza
Musulmana, movimento politico che ha un forte radicamento in
Egitto ed in alcune aree limitrofe: è pur vero che dalla Fratellanza Musulmana
sono nati personaggi come Ayman Al-Zawahiri, ma è anche vero che nel vecchio PCI
crebbe uno dei capi delle prime Brigate Rosse, ossia Franceschini.
La tendenza a fare d’ogni erba un fascio, ed a criminalizzare immediatamente un
movimento quando un suo adepto sceglie la lotta armata, nasce dall’ignoranza del
mondo islamico: nessuno, in Italia, ha pensato di criminalizzare il PCI per la
militanza di Franceschini. Quando, invece, il fenomeno si manifesta in aree
lontane dall’Europa – sapendo poco della storia, delle tradizioni e dei
movimenti politici di quei paesi – cacciamo tutto nel calderone del terrorismo.
Così facendo, operiamo una semplificazione di comodo dalla quale non sappiamo
poi uscire: promoviamo la crescita di nuove classi politiche (vedi Iraq ed
Afghanistan) senza interrogarci se esistono soggetti politici più accreditati e
che avrebbero maggiori opportunità di gestire poi realmente il paese.
D’altro canto, non ci piace ascoltare chi ci parla dei guai provocati dalla
colonizzazione europea – che spesso fu la prosecuzione di quella ottomana – e se
qualcuno c’infastidisce con queste argomentazioni preferiamo voltarci per
trovare altri interlocutori, i quali saranno proni ai nostri desideri, ma poco
ascoltati in patria.
Questo, in sostanza, è il “cortocircuito” delle varie missioni di “pace” nel
mondo, che – utilizzando una locuzione assai nota – riescono “a vincere la
guerra ed a perdere la pace”.
La nuova situazione che sta nascendo in Somalia richiama – in qualche modo – le
responsabilità italiane nella colonizzazione del paese: oggi, dopo la cacciata
dei “signori della guerra”, forse sarebbe il momento d’aiutare quei popoli a
trovare, dopo decenni di guerre, una nuova stabilità.
La situazione somala, per noi italiani, non può essere proprio del tutto
indifferente, giacché gli italiani nel paese africano sono ancora ascoltati:
Roma, talvolta, viene chiamata da Mogadiscio ad assumersi le sue responsabilità
in campo internazionale proprio per il passato coloniale.
Oggi è presto per capire quale piega prenderanno gli eventi: come ricordavamo,
truppe etiopi si stanno muovendo verso
la Somalia e
lo fanno dopo essere state “imbeccate” da Washington.
Il disinteresse internazionale per la nuova situazione somala condurrebbe
inevitabilmente ad una rinnovata stagione di sangue: scontri con truppe
mercenarie di stati confinanti oppure l’instaurazione (come contrappeso) di un
regime autoritario nel paese.
Forse il governo italiano – che cerca disperatamente una nuova politica estera
senza usare le armi – potrebbe appoggiare questo tentativo somalo di porre
termine a decenni d’instabilità e di sangue, perché l’alternativa è gettare
la Somalia
nelle fauci del fondamentalismo più integralista.
Purtroppo, l’Europa non riesce a riconoscere forme di democrazia – anche molto
primordiali e fragili – se non sono correlate con gli strumenti della democrazia
parlamentare, ovvero elezioni, parlamenti, ecc.
Chiunque abbia un briciolo di buon senso ha compreso che per giungere (sempre
che questa sia le loro via alla democrazia) ad una convivenza pacifica e
rispettosa delle opinioni non serve esportare i nostri modelli: stanno fallendo
ovunque, anche dove c’è la forza delle armi a sorreggerle – perché sono
strumenti nati da secoli di dibattiti e scontri in Europa – e non si possono
“plasmare” sulle società strutturate in modelli tribali come quelle del mondo
musulmano.
Che fare allora?
La definitiva soluzione al problema dovranno trovarla i musulmani stessi,
scoprendo la via per uscire dal loro infinito Medio Evo, che perdura dalla fine
dei grandi califfati (XII sec.) e dalla crisi dell’Impero Ottomano (XVII sec.).
Quando, però, delle milizie popolari riescono a cacciare gli ingombranti
“signori della guerra”, le loro soldataglie mercenarie ed i loro soprusi, si
tratta pur sempre di una forma di liberazione attuata dal popolo stesso e quindi
– in qualche modo – democratica.
Non sarà
la Camera dei
Lord, ma quei poveri somali con i piedi scalzi sono riusciti nel loro obiettivo
laddove i super corazzati marines americani ed i soldati italiani fallirono:
ancora una volta, la dimostrazione che eserciti e guerre servono solo a
peggiorare le cose.
Se volessimo veramente aiutare
la Somalia
(senza usarla come “pattumiera” per i nostri rifiuti tossici o per altri loschi
affari), potremmo fornire appoggio (anche come UE) al nuovo movimento per
aiutarlo nella stesura di una nuova costituzione e di un corpus giuridico, per
l’addestramento di una nuova polizia – ma senza inviare contingenti “di pace” –
giacché la preparazione potrebbe avvenire anche in Italia od in paesi limitrofi.
Sarebbe auspicabile che qualche nazione od ONG s’offrisse di fare da tramite fra
le milizie delle corti ed il governo somalo in esilio, per fugare sospetti e per
porre le basi ad una sincera collaborazione.
Potremmo intervenire anche nella sanità, nell’istruzione e nell’agricoltura – ma
non come immaginavano di fare le organizzazioni caritatevoli legate al principe
Vittorio Emanuele, ossia inviando “roba di poco valore, acqua e zucchero” –
bensì formando medici ed infermieri in Italia e fornendo assistenza e medicine
vere.
Potremmo trovare significative competenze in organizzazioni come Emergency o
Medici senza Frontiere: i loro operatori sanno bene come si può intervenire,
basterebbe dare loro la possibilità (ed i mezzi) per agire. Abbiamo speso
miliardi di euro per la missione militare in Iraq ed ora ci tiriamo indietro –
con esborsi enormemente minori – dall’aiutare i somali?
Ciò che purtroppo manca è una saggia e ponderata visione politica dei problemi e
delle possibili soluzioni – anche se non sono le migliori che immaginiamo –
perché l’alternativa, se i somali verranno abbandonati a loro stessi, saranno
altri decenni di guerre e di sangue: una condanna all’Inferno perpetua. Se
questo nefasto scenario dovesse materializzarsi, siamo sicuri che l’Organetto
Nazionale – presto o tardi – trasmetterà qualche struggente servizio
giornalistico sulla miseria in Somalia: nessuna “fatalità”, bensì lo specchio
dell’insipienza e del menefreghismo della nostra politica estera.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
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