Su richiesta dell’associazione neo-conservatrice Judicial Watch, il
Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha reso pubblico il video completo
dell’attentato perpetrato l’11 Settembre 2001 al Pentagono. La stampa
neo-conservatrice si compiace di questa pubblicazione, che contraddirebbe
definitivamente le nostre analisi. In realtà, il video non contiene affatto
elementi nuovi rispetto alle immagini già rese pubbliche nel 2002, e resta
assolutamente impossibile scorgervi un Boeing 757-200. Questa sequenza conferma,
al contrario, l’analisi del comandante Pierre Henri Brunel, pubblicata da
Thierry Meyssan nel suo libro Le Pentagate, e che riproduciamo qui.
All'interno il link al video dell'attentato al Pentagono
“L’effetto delle cariche vuote (esplosivi ad alto potenziale)”, quarto
capitolo del libro Le Pentagate.
Qual’è la natura dell’esplosione che ha avuto luogo al Pentagono l’11 Settembre
2001? Un’analisi delle immagini del video dell’impatto e delle fotografie dei
danni permette di sapere quale tipo di arnese ha causato l’attentato.
L’esplosione corrisponde a quella che può essere prodotta dal cherosene di un
aereo o a quella prodotta da un vero e proprio esplosivo? L’incendio corrisponde
ad un incendio di idrocarburi o ad un classico fuoco?
Deflagrazione o detonazione?
Prima di tutto, sembrerebbe indispensabile chiarire al lettore un essenziale
distinguo: la differenza fra una deflagrazione ed una detonazione.
La combustione delle materie esplosive chimiche, le polveri, gli esplosivi o gli
idrocarburi, per esempio, liberano energia producendo un’onda d’urto. La
diffusione a grande velocità dell’enorme quantità di gas prodotta dalla reazione
chimica si accompagna ad una fiammata, al rumore causato dallo spostamento
dell’onda d’urto ed al fumo.
Si osserva ugualmente spesso, prima di vedere la fiammata, una nuvola di vapore
dovuta alla compressione dell’aria che circonda la zona d’esplosione. L’aria non
può mettersi in movimento immediatamente, allora si comprime sotto l’influsso
dell’onda d’urto. In un primo momento, sotto la compressione delle molecole
d’aria, il vapore acqueo invisibile che è contenuto sempre nell’atmosfera, in
maggiore o minore quantità, si comprime e diviene visibile sotto forma di una
nuvola bianca.
Ciò su cui vorrei insistere, è la nozione di onda d’urto. Un’esplosione è una
reazione che proietta dei gas ad una velocità più o meno grande. Le materie
esplosive, secondo la loro costituzione chimica e la disposizione fisica delle
loro molecole, imprimono al gas, che esse generano, una velocità di propagazione
più o meno grande. Si dice che sono più o meno progressive. L’osservazione
dell’onda d’urto è, dunque, un’indicazione preziosa sulla velocità dei gas
proiettati dall’esplosione.
Le materie esplosive vengono suddivise in due gruppi, a seconda della loro
progressività. Gli esplosivi producono un’onda d’urto la cui velocità di
propagazione è superiore ad un valore di circa duemila metri al secondo. Si dice
che essi “detonano”. Le materie esplosive di cui la velocità di onda d'urto è
inferiore non detonano. Esse " déflagrent ." Si tratta, per esempio, di polveri,
o di idrocarburi. In un motore a scoppio – ed un turbo reattore Boeing 757 è un
motore a scoppio continuo – il carburante sotto pressione deflagra, ma non
detona. Se detonasse, la struttura del motore non resisterebbe. Il cherosene di
un aereo di linea che si schianta si infiamma e non produce, generalmente,
nemmeno deflagrazione, salvo eccezionalmente, ed in punti limitati al motore.
Nel caso dell’Airbus che è caduto a New York sul quartiere Queens nel Novembre
2001, i motori non sono esplosi all’arrivo al suolo. Il cherosene è un olio
pesante analogo al gasolio, trifiltrato per raggiungere le condizioni fisiche di
passaggio negli iniettori dei motori a reazione. Non è dunque, in alcun caso, un
esplosivo.
Il colore delle esplosioni è, anche, abbastanza degno di nota. In caso di
detonazioni, l’onda d’urto si sposta rapidamente. Se l’esplosione è aerea e
senza ostacoli, la fiamma è sovente giallo pallido, al punto d’esplosione.
Allontanandosi dal punto zero, tende all’arancio, poi al rosso. Quando incontra
degli ostacoli, come i muri di un edificio, la parte giallo chiaro praticamente
non si vede. La durata d’illuminazione con questo colore è breve. La forma della
fiammata dà un’impressione di “rigidità”, in ragione della velocità di
propagazione. Solo quando le polveri sollevate dall’onda d’urto hanno cominciato
a bruciare sotto l'improvvisa salita della temperatura appaiono le fumate. Si
tratta, allora, di fumi d’incendio che non hanno che qualche similitudine con le
volute nere e pesanti dei fuochi di idrocarburi.
Ma gli esplosivi solidi non sono delle semplici combinazioni chimiche. Si può
migliorare la loro efficacia giocando sulle loro forme fisiche. In principio,
l‘onda d’urto degli esplosivi si propaga perpendicolarmente alla superficie
messa in reazione. Lavorando sulle forme delle cariche, si può, dunque,
orientare l’onda d’urto in modo da dirigere il massimo dell’energia in una data
direzione, come si dirige la luce di un faro mediante un riflettore. E’ così che
si trovano cariche sferiche la cui onda d’urto parte in tutte le direzioni,
cariche cilindriche come quelle che costituiscono le granate shrapnell, queste
armi che esplodono in minuscoli frammenti d’acciaio della misura di un quadrato
di cioccolata, che mitragliano il campo di battaglia, delle cariche piatte, che
permettono di creare fori negli ostacoli piani, con il minimo dispendio di
energia nelle direzioni inutili, ma anche cariche vuote. Queste concentrano
l’onda d’urto principale sotto la forma di un dardo ad alta temperatura, che
veicola una quantità di energia capace di perforare protezioni d’acciaio, di
composito o di cemento armato.
Il circuito d'innesco
L’esplosivo che costituisce l’arma [1] deve esplodere al momento voluto. Per
poter reagire esattamente secondo i propositi dell’utilizzatore, è necessario
che abbia una certa stabilità. L’esplosivo che costituisce la carica principale
di un’arma è troppo stabile per esplodere ad un semplice urto. Infatti, per
innescare la reazione chimica, bisogna sottomettere la carica ad un’onda d’urto
provocata da un esplosivo più sensibile e meno potente, che si chiama
detonatore. La carica d’esplosivo del detonatore reagisce ad un urto, ad una
scintilla o ad un impulso elettrico o elettromagnetico. Si crea, allora, un’onda
d’urto che provoca la detonazione della carica principale.
Il sistema che comanda l’esplosione del detonatore si chiama circuito
d'innesco. I dispositivi sono molto variegati, e sarebbe troppo lungo
studiarli tutti. Mi accontenterò, dunque, di trattare due sistemi che possono
essere serviti al Pentagono, i sistemi di innesco degli esplosivi, comandati da
un operatore, ed i sistemi di innesco per cariche vuote a percussione istantanea
e a breve ritardo.
Le granate, le bombe o i missili sono dotati di un circuito che comprende un
innesco, un sistema di ritardo e un detonatore. Questo dispositivo di chiama
spoletta. Si fissa sull’arma, sia al momento della costruzione, sia al momento
della predisposizione per il tiro. Esso comprende un sistema di sicurezza, che
impedisce il funzionamento dell’insieme fino al momento del possibile impiego.
. L’innesco può essere attivato tramite l’urto nel caso di spolette a
percussione, tramite un radar ricognitore a distanza nel caso delle spolette
radioelettriche, tramite la reazione ad una fonte di calore o ad una massa
magnetica nel caso di spolette termiche o magnetiche.
L’innesco provoca istantaneamente la detonazione, ed il sistema di ritardo fa sì
che l’arma non detoni che qualche millisecondo dopo l’impatto. In quest’ultimo
caso, l’arma comincia a penetrare l’obiettivo intaccandolo fisicamente con il
proprio blindaggio. La carica detona una volta che l’arma è già penetrata
nell’obiettivo, il che accresce l’effetto distruttivo.
Per alcune fortificazioni molto dure, si trovano anche armi a cariche multiple.
Le prime sbriciolano il cemento armato e la/o/le seguenti penetrano e detonano.
In generale, le cariche anti-cemento sono cariche vuote. Il dardo di energia e
di materia fusa trapassa la fortificazione e spande all’interno quantità di
materia calda spinta da una colonna di energia che penetra i muri come una
fustella. L’alta temperatura prodotta dalla detonazione della carica vuota
provoca l’incendio di tutto ciò che di combustibile vi è all’interno.
Durante la guerra del Golfo, i missili o le bombe guidate anti fortificazione
hanno penetrato tutti i bunker di cemeno che sono stati colpiti, in particolare
al Forte di As Salman. Una stessa bomba poteva penetrare tre spessori di cemento
armato cominciando dalla parte più spessa, quella esterna.
Il missile
Per condurre un attacco con tale sistema d’armi, è necessario, evidentemente, un
lanciatore. Nel caso delle bombe guidate, il lanciatore è un aereo o, a rigore,
un elicottero potente. L’arma parte, allora, con una velocità iniziale che è
quella del veicolo che la trasporta. Essa discende in volo, planando, e si
dirige, in generale, seguendo un’illuminazione al laser. Nel caso di un missile,
la portata è molto più grande, perché il missile dispone di un motore suo
proprio. A rigore, si può anche concepire che il missile parta da una rampa di
lancio a terra. Esistono, d’altro canto, missili terra–terra, capaci di
trasportare armi anti–bunker.
Un missile da crociera di modello recente segue, in generale, tre fasi di volo.
Il lancio, nel corso del quale raggiunge la sua velocità di volo uscendo da un
dispositivo dell'aereo o da un tubo lancia-missili. Spinto da un motore a piena
potenza, raggiunge la sua velocità di crociera, spiega le ali e si impenna. In
seguito scende, alla sua altitudine di crociera e segue la sua traiettoria di
avvicinamento. Nel corso di questa fase di volo, cambia spesso direzione, vira
secondo il programma di volo, sale o scende per rimanere abbastanza basso sopra
la terra da sfuggire, per quanto possibile, alla sua individuazione. Si
potrebbe, quindi, scambiarlo per un aereo da combattimento in volo strategico.
Segue quest’impostazione sino al momento in cui arriva al limite della fase
terminale. Questo punto si situa ad una certa distanza dall’obiettivo, due o tre
chilometri, secondo il modello. A partire da questo punto, il missile vola in
linea retta verso il bersaglio, e subisce una forte accelerazione, che gli dona
il massimo della velocità per infrangere l’obiettivo con la massima forza di
penetrazione.
E’ necessario, quindi, che il missile avvicini il punto d’entrata della fase
terminale con grande precisione, e che prima della fase di accelerazione sia non
solamente nel posto migliore ma anche nella direzione giusta. Ecco perché capita
di frequente che il missile finisca il suo volo di crociera con una stretta
virata che gli permette di prendere il corretto “allineamento”. Un testimone può
percepire che il missile riduce la sua potenza motrice prima di lanciarsi “ a
tutto gas”.
Il tipo di esplosione osservata al Pentagono
L’8 marzo 2002, un mese dopo lo scoppio della polemica su internet e tre giorni
prima dell’uscita del libro “La spaventosa impostura”, sono state
pubblicate dalla CNN [2] cinque nuove immagini dell’attentato. Un’agenzia
fotografica le ha, in seguito, largamente diffuse in numerosi giornali, in tutto
il mondo. Queste immagini, tratte da una telecamera di sorveglianza, non
avrebbero dovuto essere rese pubbliche dal Pentagono. Vi si vede svilupparsi la
fiammata dell’impatto sulla facciata dell’edificio del Dipartimento della
Difesa.
Deflagrazione o detonazione?
Le materie esplosive si dividono in due gruppi, a seconda della loro
progressività. Gli esplosivi producono un’onda d’urto la cui velocità di
propagazione è superiore ad un valore di circa duemila metri al secondo. Si dice
che “detonano”. Le materie esplosive la cui velocità di onda d’urto è inferiore
non detonano. Deflagrano. Si tratta, per esempio , di polveri o di idrocarburi.
Questa immagine dell’impatto sul Pentagono dice molto a proposito
dell’esplosione. Sotto la pressione dell’onda d’urto, l’acqua contenuta
nell’aria circostante si è compressa ed ha formato un nugolo di vapore. La
velocità della propagazione dell’onda d’urto è molto elevata. Essa corrisponde
ad una detonazione di esplosivo ad alto potere energetico. L’esplosione non
corrisponde ad una deflagrazione da cherosene.
1.Traccia di fumo di un propulsore;
2.Nuvola di vapore d’acqua sotto pressione;
3.L’esplosione si dispiega all’interno dell’edificio.
La prima immagine (servizio fotografico, p II, riprodotta qui sopra) è quella di
un getto banco che sembra essere una fumata bianca. Richiama, senza dubbio, la
vaporizzazione dell’acqua contenuta nell’aria circostante al momento
dell’iniziale spiegamento nell’atmosfera di un’onda d’urto supersonica di
materia detonante. Si distinguono, tuttavia, tracce di fiamme rosse
caratteristiche delle alte temperature che raggiunge l’aria sotto la pressione
di un’onda d’urto rapida.
Ciò che salta agli occhi, è che l’onda d’urto si libera dall’interno
dell’edificio. Si vede, al di sopra del tetto, l’uscita della bolla di energia
che non è ancora una bolla di fuoco. Si può, legittimamente, pensare ad una
detonazione di un esplosivo ad alto potere energetico, ma per il momento non si
può ancora dire, in effetti, se si tratti o meno di una carica ad effetto
diretto.
Si distingue, raso terra, partendo dalla destra della foto ed andando verso la
base della massa di vapore bianco, un solco bianco di fumo. Lascia certamente
pensare al fumo che sortisce dall’ugello di un propulsore di un congegno
volante. A differenza della fumata che sortirebbe dai due motori a cherosene,
questa è troppo bianca. I turboreattori di un Boeing 757 avrebbero, in effetti,
lasciato una traccia di fumo ben più nera. Il solo esame di questa foto lascia
già pensare ad un apparecchio volante, monomotore, di taglia molto più piccola
di un aereo di linea. Non a due turbopropulsori General Electric.
Pentagono
Sviluppo della fiamma. Il colore non è quello di una fiamma da idrocarburi
all’aperto.
World Trade Center
Il colore giallo testimonia una più bassa temperatura di combustione. La
fiamma è mescolata a fumate nere e pesanti. E’ quella della combustione di
idrocarburi nell’aria. La fiamma scende, abbastanza lentamente, sul davanti
della facciata. Al contrario, quella del Pentagono sale con forza dall'
interno dell’edificio.
Nel secondo riquadro (servizio fotografico p. III, riprodotto qui sopra), si
vede sempre il solco di fumo orizzontale, ma si distingue molto nettamente lo
sviluppo della fiamma rossa. E’ interessante comparare questa immagine
dell’impatto sul Pentagono con quella dell’impatto dell’aereo sulla seconda
torre del World Trade Center ( servizio fotografico p. III ). Il colore di
questa fiamma è giallo, segno di una più bassa temperatura di combustione. E’
mischiata a fumi neri e pesanti. E’ quello che accade a seguito della
combustione di idrocarburi nell’aria. In quel caso, si tratta del cherosene
contenuto in un aereo. Questa fiamma scende abbastanza lentamente in avanti
dalla facciata penetrata dall’aereo, in quanto trasportata dalla caduta del
carburante che scende. Al contrario, la fiamma dell’esplosione del Pentagono
sale con forza dall’interno dell’edificio strappando frammenti che si vedono
mischiati alla fiamma rossa. Non c’è più la nuvola di vapore dovuta all’onda
d’urto che, sulla prima foto dell’impatto al Pentagono, maschera la fiamma. Il
calore intenso l’ha fatta evaporare. Il che, come abbiamo visto, è
caratteristico delle detonazioni di esplosivo a forte rendimento.
E approfittiamone per notare l’aspetto dei fumi che salgono dalla prima torre
colpita, mentre si sviluppa l’incendio. Si tratta di volute pesanti e grasse.
Per quanto riguarda la traccia dell’aereo nell’aria, a differenza
dell’apparecchio che sembra aver colpito il Pentagono, non vi è alcuna scia
appena avvenuto l’impatto.
L’incendio cova.
Questa foto è stata scattata pochissimo tempo dopo l’esplosione. I pompieri
non sono ancora in azione. La fiammata dell’esplosione si è spenta. L’incendio
innescato dall’esplosivo cova e le fiamme non sono ancora visibili, salvo al
livello del punto d’impatto ( sul luogo del bagliore rosso, nell’asse del
supporto verticale del pannello autostradale). Non siamo nell’ipotesi
dell’incendio di un aereo di linea, perchè il cherosene si sarebbe
istantaneamente infiammato.
L’inizio di un incendio classico
Circa un minuto dopo, gli incendi innescati all’interno dell’edifico dall’onda
di calore cominciano ad espandersi. La freccia indica un foro nella facciata,
attraverso il quale si vede il focolaio di un incendio in via di espansione.
La fumata iniziale si disperde. Poco dopo, i diversi focolai si riuniranno per
formare un unico incendio.
Le foto della pagina IV del servizio (riprodotta qui sopra) sono state scattate
subito dopo l’esplosione. I pompieri non sono ancora in azione. In quella in
alto, la fiamma dell’esplosione si è spenta. L’incendio innescato dall’esplosivo
cova e le fiamme non sono ancora visibili, eccetto che a livello del punto
d’impatto, nel luogo del bagliore rosso, lungo l’asse del supporto verticale del
pannello autostradale. Non siamo, quindi, nel caso di un incendio di aereo di
linea, perchè il cherosene si sarebbe infiammato istantaneamente. La facciata
non si è ancora accasciata. Non presenta alcuna importante distruzione meccanica
visibile, mentre i piani e il tetto sono già stati coinvolti dall’onda
esplosiva.
Nella foto in basso, scattata, secondo il suo autore, circa 1 minuto più tardi,
gli incendi innescati all’interno dell’edificio dall’onda di calore cominciano
ad espandersi. La freccia indica un buco nella facciata attraverso il quale si
vede il focolaio di un incendio in corso di espansione. La facciata non si è
ancora accasciata ed il fumo iniziale si dissipa. Sarà solo quando i due fuochi
cominceranno a fondersi e a costituire un unico incendio, che compariranno
fumate più forti, ma sempre senza presentare l’aspetto dei fumi di un incendio
di aereo di linea con le sue riserve di cherosene.
Insomma, solo l’esame di queste foto, che tutto il mondo ha potuto vedere sulla
stampa, permette di misurare delle differenze contrastanti tra le due
esplosioni. Se la fiamma del World Trade Center è, evidentemente, quella del
cherosene di un aereo, sembra che al Pentagono sia andata ben diversamente.
L’oggetto volante che ha colpito il dipartimento della Difesa, non ha, a prima
vista, nulla a che vedere con l’aereo di linea della versione ufficiale. Ma
bisogna proseguire nello studio alla ricerca di elementi che ci permetteranno,
forse, di determinare la natura dell’esplosione che ha danneggiato il Pentagono.
Un incendio di idrocarburi?
Allorché i pompieri intervengono sul sito, si vede chiaramente che utilizzano
dell’acqua per spengere il fuoco (servizio fotografico pag. X). Diverse
fotografie ufficiali mostrano un camion d’emergenza dei pompieri, che in
francese si chiama CCFM, camion cisterna per fuoco medio. L’acqua esce dalle
lance con un colore bianco, non contiene, dunque, quella sostanza che si
utilizza su certi fuochi e che si chiama ritardante. In generale, i ritardanti
colorano l’acqua di rossastro o brunastro. Dunque, questo fuoco principale che
si cerca di spengere non è un fuoco da idrocarburi, perchè non si distingue
alcun idrante a schiuma caratteristico degli interventi su incidenti d’aereo, né
lance che gettino prodotti adatti.
Intervento dei primi soccorsi sul luogo dell’impatto.
Queste foto sono state scattate fra le 9.40 e le 10.10. La facciata non si è
ancora accasciata. Si distingue il foro di entrata dell’apparecchio, fra il
pianterreno ed il primo piano (ingrandimento). Un incendio secondario si è
sviluppato sulla destra: un camion parcheggiato davanti al Pentagono ha preso
fuoco. La fumata che ne esce è quella di un incendio di idrocarburi.
In ogni caso, l’esame della foto in alto della pagina VI (riprodotta qui sopra)
mostra residui di schiuma carbonica. La spiegazione è data da alcune
testimonianze dell’11 Settembre, secondo cui un elicottero, per alcuni, un
camion, per altri, parcheggiato in prossimità della facciata, sarebbe esploso.
Si osserva, in ogni caso, in molte immagini un camion in fiamme a destra
dell’impatto. Per contro, la quantità di residui di schiuma è molto ridotta.
Essenzialmente, è sparsa non sull’incendio dell’edificio, ma sul prato che vi si
stende davanti, come se si fosse spento un fuoco acceso da quello
dell’attentato. E’ quello che si chiama un fuoco simpatico, nel linguaggio dei
pompieri. Una lancia a schiuma è stata quindi utilizzata per spegnere uno o più
incendi secondari.
Si può vedere, nelle immagini diffuse dal dipartimento della difesa, un camion,
armato di un idrante lancia-schiuma, attaccare un fuoco situato sul davanti
della facciata, finché pompe a grande potenza attaccano il fuoco principale
all’interno dell’edificio. L’aspersione, come la si è condotta in quel momento,
mira manifestamente ad abbassare la temperatura generale, bagnando tutto a
priori, prima di poter penetrare nell’edificio per spegnervi gli incendi punto
per punto.
Così, invece di impiegare in modo massiccio mezzi specializzati per fuochi di
idrocarburi, come nel caso di incendio di serbatoi, i pompieri utilizzano acqua
normale che serve all’intervento su quelli che si chiamano fuochi urbani senza
combustibili speciali. Inoltre, quel che si può vedere dalla fumata, corrisponde
in tutto a quella di un incendio normale in un edificio in città, tanto nei
colori che nell’aspetto delle volute. Non vi è alcuna similitudine con quella
che sale dal World Trade Center nello stesso momento.
Artiglieria, informazione e BDA
Dopo aver reagito da vecchio pompiere, reagirò da ufficiale osservatore
d’artiglieria. Tra i suoi compiti, egli deve individuare gli obiettivi,
identificare il tipo di arma che servirà e la quantità di proiettili che
bisognerà usare per renderli inoffensivi. Una volta che l’obiettivo è stato
colpito, bisogna ancora fare la stima dei danni reali per misurare se il primo
attacco è stato sufficiente o se bisogna continuare a tirare.
Si tratta di stabilire un bilancio delle distruzioni, da trasmettere ai gradi di
comando e d’informazione. Questa valutazione dei danni nel campo di battaglia si
chiama in inglese BDA (battlefield damage assessment). Bisogna,
certamente, dar prova del massimo di obiettività in queste valutazioni: sarebbe
stupido sparare d nuovo su un obiettivo già neutralizzato o distrutto, ma
altrettanto lo sarebbe lasciar credere che un obiettivo non è più in grado di
nuocere quando invece rappresenta ancora una minaccia.
Durante la guerra del Golfo, si teneva ogni giorno una riunione al PC del
Generale Schwarzkopf tra i tre comandanti in capo, francese, britannico e
americano. Una parte del capitolo “informazione“ del briefing puntava
sull’esame di foto di BDA. E Schwarzkopf vi dedicava un’attenzione tutta
particolare. Su questi scatti si vedevano gli effetti delle armi e l’ampiezza
dei danni inflitti agli obiettivi.
Non era voyeurismo da parte dei tre generali. Questo permetteva loro di decidere
se era il caso di continuare ad attaccare obiettivi già colpiti, ma anche di
decidere di utilizzare armi meno potenti per evitare che le distruzioni inflitte
agli obiettivi militari avessero conseguenze sugli insediamenti civili
circostanti. La valutazione dei danni, per gli interpreti delle immagini, per
gli osservatori d’artiglieria e per gli ufficiali d’informazione, è una materia
chiave, che studiamo scrupolosamente. E nel momento in cui alla teoria si
aggiunge l’esperienza, il che è sfortunatamente il mio caso, si dispone comunque
di qualche elemento d’apprezzamento oggettivo per esaminare i danni apportati ad
un edificio; soprattutto se lo si conosce abbastanza bene, il che è, ancora una
volta, il mio caso.
Le foto ufficiali della facciata
La fuliggine e le finestre
La fuliggine che copre la facciata è un melange che corrisponde ad un incendio
classico ed all’onda d’urto di un esplosivo ad alto potenziale. Non è, in
nessun caso, la coltre grassa e spessa che deposita un fuoco di cherosene. I
vetri sono stati infranti da una detonazione e non fusi da un incendio di
idrocarburi che sarebbe durato parecchi giorni. Pochi, fra loro, sono
infranti. Le finestre attinte sono situate essenzialmente vicino al punto di
esplosione ed al livello dei piani bassi.
L’ossatura dell’edificio
I piloni verticali, alcuni ricoperti con rafforzamenti di legno, sono stati
intaccati. Ma non sono stati frantumati e sbriciolati dall’impatto del bordo
delle ali di un aereo di cento tonnellate. In effetti, essi sarebbero stati
attinti dalla parte del bordo d’impatto situata più o meno nel luogo ove
sono fissati i motori, ovvero la zona più solida. Se un aereo di linea
avesse colpito il Pentagono, le ali avrebbero toccato i piloni verticali
pressappoco al livello del pavimento, dove gli uomini stanno in piedi. La
zona colpita si trova al di sotto.
Una vista d’insieme della facciata è molto interessante. Sempre proveniente
dagli organi ufficiali americani, è presentata in alto, a pagina V del
servizio fotografico (riprodotta qui sopra).
Quando i pompieri hanno terminato di lavorare all’esterno dell’edificio, si
distinguono molti elementi istruttivi. Dapprima, le fuliggini che coprono la
facciata sono una mescolanza di quelle che si sarebbero depositate in seguito
ad un incendio classico. Altre sono caratteristicamente quelle deposte
dall’onda d’urto di un’esplosione ad alto potenziale, ma, in nessun caso, sono
quello strato spesso e grasso deposto da un fuoco di cherosene. Le finestre
sono state infrante da una detonazione, e non fuse da un incendio di
idrocarburi che sarebbe durato parecchi giorni. Il dato più rimarcabile è che
poche di loro sono infrante, e che le finestre colpite sono situate,
essenzialmente, vicino al punto di esplosione ed al livello dei piani bassi.
Vicino al punto zero, dunque. E’ molto verosimile che l’onda d’urto si sia
propagata lungo i corridoi, e lo si segue molto bene attraverso la foto
d’insieme di pagina XI del servizio. Questo corrobora la testimonianza di
David Theall [3]. Quest’ufficiale di collegamento del Pentagono descrive
l’arrivo, improvviso, di un rumore violento accompagnato da frammenti, che ha
devastato il corridoio dove si trovava il suo ufficio.
All’inizio dello spostamento, l’onda d’urto ha infranto i vetri e, una volta
canalizzata dai muri dei corridoi, ha preso una direzione che non ha più avuto
effetti sulle finestre. Bisogna precisare che si tratta di finestre a doppio
vetro, il cui vetro esterno è particolarmente solido. E’ ciò che ha dichiarato
il rappresentante della Società che le ha installate [4], e così mi veniva
spiegato ben prima di quest’attentato, in occasione di una visita al
Pentagono, in qualità di interprete.
In una foto, inquadrata da minore distanza e più dettagliata, in basso a pag.
V, si ha una vista della zona d’impatto dopo lo sgombero. Essa permette di
distinguere nettamente i piloni verticali in cemento armato dell’ossatura
dell’edificio ed i corridoi che percorrono i piani. Si comprende, allora,
meglio come l’onda d’urto abbia fiancheggiato le finestre di cui abbiamo
parlato prima.
Il negativo mostra che i piloni verticali, alcuni ricoperti di armature in
legno, sono stati, evidentemente, spezzati al pianterreno, ovvero nel luogo
ove si è prodotta la detonazione . Ma non sono stati distrutti e frantumati
come si sarebbe invece verificato se fossero stati colpiti dall’impatto del
bordo delle ali di un aereo di 100 tonnellate. Essi sarebbero stati colpiti
dalla parte del bordo di impatto situata più o meno nel luogo ove sono fissate
le navicelle dei motori, ovvero la zona più solida. E’ chiaro che nessun ala
ha colpito questi piloni verticali dell’ossatura in cemento armato.
Se un aereo avesse colpito il Pentagono, come si vuole far credere nella
versione ufficiale, le ali avrebbero toccato i piloni verticali
approssimativamente a livello del pavimento, sul quale gli uomini stanno in
piedi. Manifestamente, la zona frantumata dei piloni si situa al di sopra, là
dove si possono vedere le coperture in legno e i puntelli in acciaio color
minio. Dunque, il veicolo che portava la carica che ha frantumato i piloni ha
colpito più in basso di quanto avrebbe fatto un enorme aereo di linea e rinvio
alla prima fotografia studiata, sulla quale possiamo vedere la traccia della
fumata di un propulsore molto basso sul suolo.
Questa immagine permette, inoltre, di relativizzare le dichiarazioni di alcuni
esperti secondo le quali “il Pentagono è costruito con materiali
particolarmente solidi“. E’ vero che i costruttori hanno utilizzato materiali
induriti per le finestre e i rivestimenti esterni, ma il Pentagono non è un
bunker più di quanto lo sia macchina blindata o un carro armato.
Una carica vuota anti cemento armato
L’ultima foto è stata realizzata dal dipartimento della Difesa e pubblicata su
un sito della Navy [5]. E’ presentata a pag. XII del nostro servizio
fotografico. Esaminandola, si può vedere un buco pressoché circolare
sormontato da una traccia nera. Questa perforazione ha un diametro di circa m.
2,30 e si situa nel muro della terza linea dell’edificio partendo dalla
facciata. Sarebbe stata fatta dal muso dell’aereo.
Questo vorrebbe dire che il muso dell’apparecchio, un radome [rivestimento
protettivo trasparente] in fibra di carbonio lungi dall’essere una corazza,
avrebbe attraversato senza distruggersi sei muri portanti di un edificio
considerato piuttosto solido. E quale sarebbe, allora, l’origine della traccia
nera che segna il muro sopra il foro? Il fuoco di idrocarburi? Ma allora tutta
la facciata di questo edificio sarebbe segnata di fuliggine e non solamente i
pochi metri quadri realmente segnati. E le finestre rotte, sarebbero l’effetto
dell’impatto? Ricordo che sono finestre solide.
L’aspetto della perforazione del muro richiama immancabilmente gli effetti
delle cariche vuote anti cemento armato che ho potuto vedere su un certo
numero di campi di battaglia.
Queste armi si caratterizzano per il loro “dardo“ . Questo dardo è un
miscuglio di gas e di materie in fusione che è proiettato nella direzione
dell’asse del paraboloide che costituisce la parte anteriore dell’arma.
Lanciato ad una velocità di alcune migliaia di metri al secondo, con una
temperatura di alcune migliaia di gradi, questo dardo penetra il cemento per
uno spessore di più metri. Esso può, dunque, penetrare senza problemi cinque
spessori di muro di un edificio. Cinque spessori su sei, perchè la facciata è
stata perforata dal vettore medesimo. La detonazione della carica militare non
si produce, in effetti, che una volta che la carica è stata portata
all’interno dell’obiettivo.
Come ho spiegato più sopra, i missili che armano le cariche anti cemento, non
sono istantanei, ma a breve ritardo. E’ per questo che la fiamma
dell’esplosione si è sviluppata dall’interno dell’edificio verso l’esterno.
Come si vede sulle foto scattate dalla telecamera di sicurezza l’onda d’urto
parassita ha danneggiato la facciata, i piani ed il tetto, e si è propagata
nei corridoi all’altezza del luogo ove il vettore ha impattato: il
pianterreno.
Il “dardo” contiene gas ad alta temperatura, che rallentano e finiscono per
arrestarsi prima della corsa delle materie fuse. I gas incendiano ciò che è
combustibile sul loro percorso. Un’immagine schematica della fiamma e del
dardo di una carica vuota mentre fa breccia nei muri è presentata a pag. XIII
del servizio fotografico.
Le materie fuse vanno più lontano del gas, e, nella fattispecie, l’immagine
richiama immancabilmente l’effetto che avrebbero avuto le materie fuse di un
dardo in fine traiettoria. Queste si sarebbero arrestate sull’ultimo muro che
hanno colpito lungo la corsa. Ancora abbastanza calde, avrebbero marcato il
muro con questa traccia nera che si vede giusto sopra il foro. Il calore sale
dalle materie che in seguito iniziano a raffreddarsi e non segna, dunque, la
facciata che al di sopra dell’impatto. A questo punto, non c’è più abbastanza
temperatura per segnare ancora il cemento. Per contro, il resto dell’onda
d’urto ha abbastanza energia per rompere i vetri immediatamente attorno al
foro.
Si comprende, allora, che i pompieri siano intervenuti con l’acqua. E’ il
fluido estintore che presenta il più forte calore di massa. E’ dunque il più
adatto a raffreddare materiali che hanno preso un “ colpo di calore “ e a
spegnere i fuochi urbani che si sono accesi per simpatia. Non si trattava,
dunque, per i pompieri di spegnere un fuoco di idrocarburi, ma fuochi zonali e
raffreddare materiali scaldati. Questa foto e gli effetti descritti dalla
versione ufficiale mi conducono dunque a pensare che la detonazione che ha
colpito l’edificio sia quella di una carica vuota di forte potenza destinata a
distruggere edifici solidi e portata da un veicolo aereo, un missile.
Documenti aggiunti
Video
dell’attentato del Pentagono 1
Immagini riprese da una delle telecamere di video sorveglianza del Pentagono
il 12 Settembre 2001 e diffuse dal dipartimento della Difesa il 16 Marzo 2006.
(Windows Media - 4.4 Mo)
Video
dell’attentato del Pentagono 2
Immagini riprese da una delle telecamere di video sorveglianza del Pentagono
il 12 Settembre 2001 e diffuse dal dipartimento della Difesa il 16 Marzo 2006.
(Windows Media - 5.2 Mo)
Pierre Henri Brunel
Pierre Henri Brunel è Sanciriano, già ufficiale di artiglieria, la cui perizia
è riconosciuta nei seguenti campi: effetti degli esplosivi sugli uomini e
sugli edifici, effetti delle armi di artiglieria sul personale e sui
fabbricati, lotta antincendio su fuochi specifici, relitti e resti di aerei
distrutti. Ha, in particolare, partecipato alla guerra del Golfo, al fianco
dei generali Schwarzkopf e Roquejeoffre.
Note:
[1] in linguaggio militare, una munizione è l'insieme del carico propellente e
del proiettile. L'arma è il lanciatore per i lanciatori di piccolo calibro, il
proiettile per i sistemi di armi di grosso calibro. Così come le armi
dell'artigliere sono la granata o il missile e non il cannone o la rampa di
lancio.
[2] " Images show September 11 Pentagon crash ", CNN, 8 marzo 2002 :
http://www.cnn.com/2002/US/03/07/gen.pentagon.pictures
[3] " September 11, 2001 ", Washington Post, 16 settembre 2001 :
http://www.washingtonpost.com/ac2/wp-dyn/A38407-2001Sep15
[4] Difesa Link, Department of Difesa, 15 settembre 2001 :
http://www.defenselink.mil/news/Sep2001/t09152001t915evey.html
[5] " War and readiness ", All Hands, rivista dell'US Navy :
http://www.mediacen.navy.mil/pubs/allhands/nov01/pg16.htm
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di GIORGIA
Fonte: http://www.voltairenet.org/article139125.html
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