Maledetta primavera, verrebbe da dire: dal lontano 2003 – dall’attentato di
Nassirya – non c’erano più stati attacchi specificatamente diretti contro i
militari italiani, anche se in zona di guerra, purtroppo, ogni tanto “ci scappa
il morto”, è inevitabile.
Questa sarebbe già una riflessione “pesante” da proporre a chi inviò i nostri
soldati in una missione “di pace”, in un territorio che dire sconvolto dalla
guerra significa usare il più edulcorato degli eufemismi.
Nassirya fu l’attentato principe, l’attacco con il quale la guerriglia
irachena volle indicare l’uguaglianza delle forze italiane alle altre che
avevano condotto le operazioni belliche: in sostanza – comunicarono gli
attentatori – chiunque occupa il suolo iracheno è da considerare un invasore.
La natura bellica della missione italiana è stata chiara sin dall’inizio,
giacché il comando americano sapeva che il controllo militare dell’Iraq sarebbe
stato lungo, sanguinoso e, oggi, aggiungiamo anche incerto.
Lo spiegamento delle forze italiane a Nassirya è importante – nel quadro
generale del controllo del territorio – per controllare dal sud la penetrazione
verso le aree centrali (Baghdad) e viceversa, mentre gli inglesi a Bassora
devono soprattutto porre attenzione ai contatti con il vicinissimo Iran,
distante poche decine di chilometri.
Questo spiegamento tattico doveva lasciare “mani libere” agli americani per
controllare il centro dell’Iraq, poiché essi immaginavano che le forze curde
sarebbero state in grado da sole di controllare le aree settentrionali.
La natura militare dell’intervento italiano risulta chiara addirittura
dall’analisi dei documenti approvati dal Parlamento per il finanziamento della
missione: costata circa un miliardo di euro l’anno, la ripartizione dei fondi
assegna agli interventi di ricostruzione il 6% dei finanziamenti ed il 94% alla
parte essenzialmente militare. E poi raccontano siamo andati ad “aiutare” gli
iracheni.
Molto strano fu anche l’atteggiamento della guerriglia dopo la cosiddetta
“battaglia dei ponti”, nella quale perse la vita un nostro lagunare: fu un
episodio cruento, nel quale gli italiani spararono indistintamente su
guerriglieri, dimostranti e popolazione civile. Molto probabilmente la
guerriglia si servì dei civili come “scudo”, ma fu comunque un errore cadere in
quella provocazione.
Dopo la “battaglia dei ponti” – risolta con l’intervento di un C-130 Spectre,
una “cannoniera” volante americana in grado di sparare dall’aria colpi da 105 mm
– le regole d’ingaggio dei militari italiani divennero più prudenti: in pratica,
gli italiani abbandonarono Nassirya e si trincerarono nel più sicuro Camp
Mittica, distante qualche chilometro dalla città.
Dal campo trincerato uscivano ed escono in convogli di mezzi blindati per
controllare le principali vie d’accesso alla città, protetti dall’alto dagli
elicotteri, ma è del tutto evidente che il controllo del territorio è loro
sfuggito da tempo.
D’altro canto, un maggior impegno nel controllo capillare del territorio (sul
quale premevano i comandi USA) si sarebbe inevitabilmente trasformato in un
maggior tributo di sangue che il governo italiano non poteva sopportare: anche
se l’elettorato italiano è diviso a metà, le statistiche ci dicono che più dei
2/3 degli italiani sono favorevoli al ritiro delle truppe.
Ciò che avvenne dopo la “battaglia dei ponti” fu una sorta d’armistizio – o
meglio, quasi un protocollo d’intesa – fra le forze italiane e le autorità
locali che – come tutti sanno o possono facilmente immaginare – sono quelle che
hanno contatti con la guerriglia.
Da quasi un paio d’anni la situazione nella provincia di Nassirya era
tranquilla: i caduti italiani che ci sono stati in questo lasso di tempo sono da
addebitare all’inevitabile pericolo che corre chi opera in zona di guerra, così
come è capitato a giornalisti e civili.
Improvvisamente, nel maggio del 2006 la situazione muta; non più sporadici
colpi d’arma da fuoco, bombe di “avvertimento” o qualche isolato colpo di
mortaio: l’attacco nel quale hanno perso la vita i nostri militari era una
trappola accuratamente preparata per uccidere, per uccidere degli italiani.
Pochi giorni dopo ed un nuovo attacco – fotocopia di quello iracheno –
colpisce in nostri soldati in Afghanistan: fatalità? Si noti che in entrambi i
casi sono state usate vere e proprie mine anticarro, che non lasciano scampo
agli occupanti dei mezzi.
In una comunicazione dei servizi italiani – resa pubblica il 6 maggio 2006 –
si afferma che gli attentati sono da mettere in relazione con il “cambio di
governo” che sta per avvenire. Perché la guerriglia islamica dovrebbe colpire le
forze armate di una nazione pur sapendo benissimo (almeno per l’Iraq) che il
nuovo governo ritirerà le truppe?
Una forma di pressione per accelerare il ritiro delle truppe? Difficile da
dimostrare: anzi, una recrudescenza del conflitto contro gli italiani
avvantaggia chi quelle truppe vorrebbe lasciarle in Iraq, che potrà così
accusare il prossimo governo d’essere fuggito “con la coda fra le gambe” senza
onorare con l’impegno per la “democrazia irachena” il sangue versato.
Se l’Iraq è comunque un terreno sul quale è difficile imbastire queste
speculazioni – vista la decisione d’entrambi gli schieramenti di terminare la
missione – per l’Afghanistan le cose si presentano diverse, giacché le forze
italiane fanno parte di una coalizione con compiti di sorveglianza che ha avuto
l’imprimatur dell’ONU.
Spesso sentiamo affermare la “sostanziale” differenza fra le due missioni
proprio per l’avallo che le Nazioni Unite diedero dopo la cacciata dei Taliban
da Kabul e l’insediamento di Karzai come presidente, in un paese che si riteneva
“pacificato”.
Il nesso che lega le due situazioni e che le rende entrambe pericolose per
chi vi partecipa risiede proprio nel significato del termine “pacificazione”,
che è vago, troppo vago.
I due paesi saranno “pacificati” quando lo stato funzionerà su un modello di
tipo occidentale – ossia Parlamento, Governo, elezioni democratiche, ecc. –
oppure ci si accontenterà della tregua delle armi? E come si pensa di giungere
alla soluzione?
L’impressione che i media hanno cercato di fornire in occidente della
situazione è fuorviante: se per l’Iraq era impossibile sostenere qualsiasi tipo
di ritorno alla “normalità”, per l’Afghanistan si è lasciato credere per molto
tempo che la situazione fosse tranquilla – come in Bosnia, ad esempio – e che si
trattasse oramai solo di definire i “dettagli” della “normalizzazione”.
L’inganno nasce dalla scarsa conoscenza che l’opinione pubblica occidentale
ha di quel lontano paese: per certi versi, è più pericolosa la situazione afgana
di quella irachena poiché l’Afghanistan è un’entità statuale assai incerta – a
differenza dell’Iraq e del suo nazionalismo, che nacque già prima della seconda
guerra mondiale – dove l’unico paragone che in qualche modo regge per
comprendere la situazione è quello dei Balcani. Il che, ad un osservatore
attento, dovrebbe far correre un brivido lungo la schiena.
Anche in Afghanistan incontriamo il solito pudding di lingue, etnie e
confessioni religiose interne all’Islam: i pashtun di lingua urdu sono la
maggioranza, ma una consistente parte di quell’etnia risiede oltre confine, in
Pakistan. All’est vivono popolazioni semi-nomadi di fede sciita, che dunque si
sentono più vicine agli ayatollah iraniani che al governo di Kabul. Ci sono poi
le popolazioni del nord, tagiki ed uzbeki, che hanno combattuto a lungo i
sovietici per poi riaprire il sipario contro i Taliban, questa volta sorretti
dai russi, gli ex sovietici.
I Taliban, a loro volta, furono finanziati dagli USA fino alla fatidica data
del settembre 2001, per poi essere definitivamente abbandonati in favore del
nuovo “alleato” – il Pakistan – sul cui programma nucleare, a differenza
dell’Iran, nessuno trova niente da ridire.
Noi italiani usiamo per comodità il termine “casino” per definire simili
situazioni: il problema è che, se non riusciamo a penetrare meglio nelle pieghe
di questo “gran casino”, non sapremo mai se è meglio lasciare i nostri soldati a
Kabul oppure ritirarli.
Lo strano appoggio ai Taliban da parte degli USA coincideva con un nome:
UNOCAL, ossia una società che avrebbe dovuto costruire un oleodotto che,
partendo dalle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, sarebbe proseguito
in Afghanistan da Herat e Kandahar – tagliando il paese da nord a sud – per poi
entrare in Pakistan nella zona di Quetta e terminare nel porto di Karachi. Sono
le stesse aree dove oggi si muore apparentemente senza ragione, per conquistare
aree desertiche senza nessun valore intrinseco.
Ufficialmente, UNOCAL sosteneva che la costruzione del grande oleodotto fosse
funzionale allo sviluppo delle economie asiatiche: il lontano 12 febbraio del
1998 un dirigente della UNOCAL – John J. Maresca – si presenta di fronte al
sottocomitato del Congresso USA per l’Asia ed il Pacifico ed espone le sue tesi.
In sostanza – afferma Maresca – dato che l’incremento economico di Cina ed
India crescerà in modo esponenziale e condurrà – in assenza di un aumento
dell’offerta – ad una levitazione dei prezzi dell’energia (cosa, poi,
puntualmente avvenuta), sarebbe meglio pensarci anzitempo, creando un terminal
petrolifero nei pressi di Karachi ed alimentandolo, mediante l’oleodotto afgano,
con il petrolio del Caspio e delle ex repubbliche sovietiche.
Non dimentichiamo che a quel tempo al Cremlino regnava un “appassionato”
della vodka che portava il nome di Yeltsin, al quale era facile far “digerire”
qualsiasi accordo, anche se fosse stato un accordo-capestro: nessuno immaginava,
allora, il prorompente ingresso in scena di Vladimir Putin.
Passano appena due anni e gli USA cambiano amministrazione: guarda a caso, i
nuovi dirigenti americani provengono quasi tutti dal mondo del petrolio, da
Condoleeza Rice (Chevron) a Cheney (Halliburton) fino allo stesso presidente
Bush.
La nuova amministrazione si mostra subito molto attenta al progetto della
UNOCAL, al punto d’incontrare il rappresentante del Mullah Omar – Sayed
Rahamatullah Hascimi – più volte: l’ultimo incontro avviene il 2 agosto 2001 ad
Islamabad, dove gli afgani rifiutano di partecipare al progetto americano (che
richiede, in cambio, di liberarsi dell’ingombrante presenza di Bin Laden) e
dicono di no al 15% degli utili dell’impresa. E’ la guerra.
Perché si giunge a tanto?
Per capire il “mutar del vento” bisogna per prima cosa capire da dove spira:
mentre UNOCAL progetta di costruire il suo oleodotto in Afghanistan, i cinesi
prolungano importanti tratti ferroviari che, partendo dalle aree centrali
cinesi, dovranno varcare i confini occidentali in vari punti, in Tagikistan,
Kirghizistan e forse anche Afghanistan. Insomma, mentre gli americani progettano
un oleodotto con direzione nord-sud, i cinesi costruiscono i primi tratti di un
collegamento est-ovest che chiamano – senza alcuna remora – “Pechino-Parigi”.
In sintesi, la guerra afgana avviene sullo sfondo (abilmente celato) di una
contesa per il controllo delle vie d’accesso all’Asia centrale: siano oleodotti,
strade o ferrovie, il nesso della situazione è stabilire chi controllerà quelle
aree, ossia le potenze occidentali, la Russia o la nuova, rampante Cina.
La guerra per liberarsi degli ingombranti Taliban, però, non viene condotta
dagli occidentali in prima persona: con sotterranee trattative si riescono a
mettere d’accordo i resti della componente tagika (che aveva come leader
l’unico, vero uomo politico afgano, Ahmad Shah Massud, ucciso da Al-Qaeda il 9
settembre 2001) con gli uzbeki del “generale” Dostum: nasce la cosiddetta
“Alleanza del Nord” che, sorretta dagli americani e dai russi, libera
l’Afghanistan dagli studenti col mitra.
Il primo, evidente errore strategico sta proprio nell’illusione che una lotta
interna afgana possa sfociare in una “liberazione” dalla quale potrà nascere una
entità statuale super partes, ossia non condizionata dalle fazioni interne.
Per tentare una normalizzazione del paese gli USA inviano un manager
petrolifero dei Bush, Ahmid Karzai, che cerca – terminate le ostilità – di
mediare fra le varie “anime” afgane convocando la Loya Girga , l’assemblea dei
capitribù – l’equivalente del Consiglio degli Ulema iracheno – forse più noto in
occidente.
La partita interna afgana si gioca su più fronti: da un lato bisogna
accontentare le esigenze dei clan – la Loya Girga – dall’altro i “signori della
guerra” – specie di feudatari che si vendono senza alcuna remora al miglior
offerente – poi ci sono gli americani ed i loro interessi petroliferi, i cinesi,
i russi che osservano dalle repubbliche ex sovietiche: infine, bisogna far
quadrare il tutto con elezioni che siano il più possibile simili ad un reale
processo democratico. Nemmeno Dio sceso in Terra potrebbe riuscirci.
In realtà la lunga lista non terminerebbe nemmeno qui, giacché anche il
Pakistan e l’Iran fanno parte della contesa, ma il problema più evidente e
tragico riguarda i cosiddetti “signori della guerra”. Chi sono costoro?
L’uzbeko Abdul Rashid Dostum è un ex paracadutista sovietico, del quale non
si sa nemmeno con certezza il grado che rivestiva nell’Armata Rossa: taluni
affermano che fosse generale, altri optano per un più umile “sergente”. Dostum,
terminate le ostilità, si ritira a Shebergan, nel nord del paese, e da lì inizia
ad esigere i dazi doganali con il vicino Uzbekistan (circa 200.000 dollari
l’anno) ma non invia un centesimo a Kabul ed a nulla servono le blandizie e le
minacce di un impotente Karzai per convincerlo a scucire la borsa. Come nel più
tradizionale Medio Evo, Dostum destina metà della cifra ai suoi vassalli delle
milizie di Jamiat e di Hezb i Wahad ma non può lamentarsi, perché controlla
anche il traffico d’oppio (16.000 dollari ad ettaro coltivato) e le risorse di
gas naturale.
Un altro “sostenitore” del governo di Karzai sarebbe dovuto essere Gulbuddin
Hekmatyar, signore delle aree meridionali, grande amico dei Taliban e dei
wahabiti sauditi che li finanziavano. Questo “brav’uomo”, nel 1990 bombardò per
settimane Kabul per spianare la strada ai Taliban, provocando la morte di 25.000
persone ed il ferimento di altre 100.000. Quando i Taliban entrarono in Kabul
conquistarono una città spettrale, completamente abbandonata dagli abitanti,
nella quale si dedicarono alla ricerca degli ex sostenitori dei sovietici, che
impiccarono ai ganci dei carri-attrezzi dopo aver tagliato loro i testicoli ed
averglieli ficcati in bocca.
Hekmatyar, in quel panorama, si vantava di girare per le
vie di Kabul con una bottiglietta di acido solforico in tasca, per spruzzarlo
sulle donne che non avevano il viso completamente coperto. Oggi, questo signore
ha “giurato” fedeltà ad Osama Bin Laden: ma sarebbe questa una notizia?
Al-Zawahiri ed Hekmatyar si conoscono da almeno trent’anni, ossia da quando
entrambi erano adepti della Fratellanza Musulmana: sa mai, bisognerebbe
domandare agli americani come pensavano di governare il nuovo Afghanistan con
simili tipacci in giro, che riconobbero ufficialmente come “leader regionali”.
Forse, nella loro visione del nuovo Afghanistan, sarebbero dovuti diventare
delle specie di “governatori”: a nulla valsero gli avvertimenti della Loya Girga
e dell’ex sovrano Zahir Shah (che consigliavano di “disfarsi” dei “signori della
guerra”), perché gli americani non li ascoltarono.
La lista dei feudatari è lunga e potremmo continuare con altri nomi, presenti
e passati nella storia afgana – Ismail Khan, Abdul Rasul Sayyaf, Haji Kadeer,
Mohammed Fahim, Mohammed Daud, Ustad Atta Mohammad ed altri ancora – chi legato
all’Iran, chi ai tagiki, chi al Pakistan…ma la sostanza non cambia: feudatari
medievali che, per giunta, non riconoscono nemmeno l’autorità dell’imperatore-Karzai.
Questa situazione implica gravi problemi economici giacché, se nessuno versa
le tasse al governo centrale, non si comprende come lo stesso possa
sopravvivere. Finora Karzai ha “tirato avanti” con gli aiuti internazionali, ma
anche questo doloroso tasto rivela più un fallimento che rosee prospettive.
Già nel lontano 2002, alla conferenza di Tokyio, i fondi destinati dai paesi
occidentali per la ricostruzione dell’Afghanistan furono scarsi: circa 5
miliardi di dollari, mentre ne sarebbero serviti almeno il doppio, ma – ad oggi
(2006) – non è giunto a Kabul nemmeno il 30% di quei fondi.
La successiva guerra irachena – dove la fragile unità raggiunta per
l’Afghanistan andò in frantumi – finì per riflettersi anche su Kabul: gli USA
iniziarono a lamentarsi dell’alto costo della missione per le loro forze (1
miliardo di dollari l’anno) ed a chiedere sempre di più agli altri paesi i
quali, memori dello scontro in Consiglio di Sicurezza dell’ONU, strinsero i
cordoni della borsa.
In Afghanistan, tutto ciò ha condotto al quasi totale fallimento delle opere
di modernizzazione del paese: la costruzione della grande strada che doveva
congiungere Herat a Kandahar (guarda a caso, lo stesso percorso dell’oleodotto
UNOCAL) è ferma e ne è stato costruito poco più del 2%.
Se si esclude l’area di Kabul, il resto del paese è completamente abbandonato
alle milizie locali: siccome sta risorgendo con forza la coltivazione del
papavero da oppio, l’Afghanistan si sta trasformando in uno stato di
narcotrafficanti come la Colombia , guarda a caso entrambe nazioni “infarcite”
di truppe USA.
Le operazioni militari contro i Taliban sono condotte con scarsi mezzi: non
ci sono sufficienti soldati per imbastire vere e proprie campagne militari, ed
allora si ricorre al solito controllo dall’aria, sparando nel mucchio su tutto
quello che si muove.
Quel “tutto quello che si muove” possono essere oggi guerriglieri di Al-Qaeda
e domani semplici contadini che girano armati, perché in Afghanistan non è
possibile permettersi il lusso di girare disarmati: la povera giornalista
italiana Cutuli non fu uccisa da un gruppo di terroristi, ma da una banda di
comuni tagliagole per rapina, per pochi dollari e per rivendere le attrezzature
sui banchi di qualche mercato locale.
Le forze d’occupazione – dopo tanti “tragici errori” – sono oramai guardate
con sospetto: chi può fidarsi di questi soldati, gli stessi che sparano con le
mitragliatrici dagli elicotteri?
Come ricordavamo, la campagna afgana nacque con un grave difetto d’origine,
ossia l’assurda teoria che uno scontro fra fazioni interne avrebbe condotto ad
uno stato pacificato, ed oggi ne scontiamo le conseguenze.
Per risolvere la situazione bisognerebbe sconfiggere ad una ad una le varie
milizie ed occupare l’intero territorio con contingenti che non permettessero il
riformarsi delle stesse: inoltre, bisognerebbe per anni sostenere economicamente
l’Afghanistan con consistenti finanziamenti internazionali.
Questa strategia militare potrebbe avvenire soltanto con un consistente
aumento dei contingenti occidentali, che dovrebbero passare dalle poche decine
di migliaia alle centinaia: ricordiamo che Westmoreland, in Vietnam, ebbe al suo
comando 530.000 soldati americani.
La conseguenza sarebbe però una lunga guerra che provocherebbe molte migliaia
di morti fra le forze occidentali e che nessuno oggi – nel panorama politico
interno occidentale – può permettersi. Inoltre, ci vorrebbe un corrispondente
aumento dei fondi destinati alla ricostruzione: ricordiamo che la Nazioni Unite
spendono annualmente per il Kossovo 250 dollari pro capite, per l’Afghanistan
42.
La risposta ai molti dubbi sull’avventura afgana non spetta dunque a chi ne
ha sempre sostenuto la sostanziale inutilità – perché è inutile garantire i
diritti minimi della popolazione nella sola area della capitale, soprattutto se
non sai per quanto tempo potrai ancora farlo – ma a coloro che sostengono la
missione: sono coloro che decisero d’aprire il vaso di Pandora a dover trovare
soluzioni, non coloro che mettevano in guardia dallo scoperchiarlo.
Altrimenti – di là della dolorosa pietà per i nostri soldati morti così
tragicamente e dall’empatia per chi oggi rimane nel paese – cosa racconteremo ai
soldati che restano in Afghanistan? Che nessuno caccia un soldo e che la
situazione non potrà che incancrenirsi ancor più? Con gli attuali, altissimi
prezzi del petrolio, quanti soldi giungeranno nelle casse dei wahabiti e, da lì,
in quelle di Al-Qaeda?
Nel silenzio assordante di chi promosse la missione, e di chi ne tesse ancora
oggi gli elogi con una retorica che non ha nessi con la realtà, non possiamo far
altro che ricordare ciò che affermarono gli inglesi dopo la loro spedizione nel
paese alla fine dell’Ottocento: «Non è difficile entrare in Afghanistan: il
problema è uscirne.» Un secolo dopo i sovietici fecero loro eco: e domani?
Carlo Bertani
bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
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