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03/11/2004 E' l'America di Bush (Francesco Giavazzi, www.lavoce.info)

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    I democratici pensavano che più persone avessero votato, più voti John Kerry avrebbe ricevuto: non è stato così. Per ogni nuovo elettore che il partito democratico ha convinto a votare - nei centri urbani, tra le minoranza indiane, tra gli studenti delle università - le chiese di varia fede ne hanno trovato un altro, e forse più di uno.

    L’importanza del voto religioso

    La fede e la religione hanno pesato più dell’Iraq in queste elezioni. Ed è stato un grave errore dei democratici farsi incastrare, in molti Stati, in referendum sul matrimonio tra coppie omosessuali. Le chiese hanno potuto usare questi referendum per convincere i loro fedeli ad andare a votare. E già che si recavano ai seggi, a votare per George W. Bush.

    Kerry ha capito troppo tardi l’importanza del voto religioso. E il suo ultimo discorso in Florida, tutto dedicato alla sua fede, tradiva scarsa sincerità. O meglio, ha mostrato un candidato che, contrariamente al suo avversario, fa fatica a dire bugie. Sarà anche stato un chierichetto da bambino, ma il mondo della chiesa gli è evidentemente estraneo - fortunatamente, dirà qualcuno che conosce poco l’America.
    Non lo ha aiutato neppure la sua chiesa, nonostante fosse il primo candidato cattolico dai tempi di JFK. Quando ha dovuto dire che i vescovi sbagliano nella loro opposizione all’aborto, è stato ancora una volta sincero, ma ha perduto anche una parte del voto cattolico. Sul matrimonio tra omosessuali ha detto ciò che qualunque “liberal” avrebbe detto: le persone sono libere. Anche qui è stato sincero, ma ha perso una montagna di voti.
    Uno dei momenti decisivi della campagna elettorale è stato quando, nel secondo dibattito, Bush ha detto chiaramente che ogni cittadino americano che non sia stato condannato da un tribunale ha diritto a tenere in casa un fucile carico. Chi non ha capito che quella risposta gli ha fatto guadagnare milioni di voti non conosce l’America, oppure pensa che l’America sia Boston e New York.
    L’Iraq ha fatto perdere a Bush molti voti: è un errore pensare che il risultato delle elezioni sia una vittoria dei fautori della guerra. Bush ha vinto nonostante la grande opposizione alla sua guerra.
    Ma l’abilità dei repubblicani è l’aver saputo mobilitare fede e valori tradizionali là dove la guerra faceva perdere voti.

    L’agenda interna

    Forse più importante dello stesso risultato presidenziale è lo spostamento a destra del Congresso. La sconfitta di Tom Daschle, senatore del South Dakota e capogruppo dei democratici al Senato, consegna quell’assemblea ai repubblicani.

    Persone che conoscono bene George W. Bush dicono che il suo progetto nei prossimi due anni, e cioè da domani alle elezioni di mid-term del 2006, è trasformare l’America, non l’Iraq (dove cercherà un disimpegno costoso ma onorevole), con la promozione dei valori cristiani e conservatori nelle scuole, negli ospedali, trasferendo alle organizzazione religiose finanziate dallo Stato molti compiti di assistenza sociale.
    Sbaglia chi pensa che l’obiettivo di Bush sia chiudere i conti con il mondo islamico e riaffermare il primato americano nel mondo. Sbaglia perché continua a guardare all’America con gli occhiali distorti di chi pensa che il resto del mondo conti davvero, anche fuori da Boston e da New York.
    L’America rimane un paese chiuso, nel quale il resto del mondo conta solo nella misura in cui influisce sulla sua vita interna, come l’11 settembre. E Bush molto meglio di Kerry rappresenta quell’America.
    Quindi un’agenda politica tutta interna, con la differenza che questa volta i repubblicani controllano anche il Senato.

    Lettera dall’America

    Stephen Martin

    Ho letto con molto interesse l’articolo di Francesco Giavazzi sulle elezioni presidenziali americane pubblicato da lavoce.info. Capisco che dal di fuori la situazione americana possa sembrare così come l’ha descritta Giavazzi, ma dall’interno si possono vedere le cose in un modo leggermente diverso.

    Una grande coalizione

    Il presidente Bush non avrebbe vinto le elezioni senza l’appoggio dei suoi sostenitori religiosi. Né le avrebbe vinte senza il sostegno di chi pensa che quando i soldati americani sono sotto il fuoco, non è il momento di cambiare comandante in capo. E non si sarebbe guadagnato l’elezione senza l’appoggio degli anziani, convinti dalla sua promessa di mantenere l’attuale livello di sicurezza sociale. (Mentre probabilmente la promessa di rendere possibili conti di pensione individuali non ha avuto molta influenza sul voto dei giovani, nella loro certezza di vivere per sempre).
    George W. Bush non sarebbe stato rieletto senza l’appoggio dei conservatori politici (non necessariamente religiosi), conquistati con la promessa di ridurre le tasse e colmare il disavanzo federale. Dunque, la destra religiosa è una componente della coalizione che ha portato il presidente alla vittoria. E ciò che viene descritto nel linguaggio politico americano come "i valori della famiglia" è un elemento del programma del presidente. Ma la destra religiosa non è l’unica componente, non è neanche la più grande, nella coalizione del presidente, e le promesse alla destra religiosa non sono le uniche fatte da Bush in campagna elettorale.

    Le promesse da mantenere

    In campo economico, il presidente ha fatto quattro promesse. Ridurrà le tasse. Ridurrà il disavanzo federale. Manterrà il livello dei pagamenti della sicurezza sociale. E farà in modo che i giovani possano aprire conti di pensione individuali. Non sarà possibile mantenerle tutte e quattro. Al massimo riuscirà a tener fede a tre, ma forse neanche questo. Quali delle quattro promesse rimarranno irrealizzate? Almeno due: la privatizzazione della sicurezza sociale e la riduzione del disavanzo federale.
    La privatizzazione della sicurezza sociale non sarà possibile perché non ha il sostegno dell’opinione pubblica. Gli anziani votano in modo più che proporzionale alla loro quota nella popolazione. Sono la maggioranza in Stati chiave per il controllo repubblicano del Senato. Qualsiasi tentativo che abbia anche solo l’apparenza di minacciare le pensioni degli anziani incontrerà una resistenza feroce. E tra i giovani il consenso verso quest’idea è al massimo tiepido. A spingere per la privatizzazione della sicurezza sociale è la parte più ideologica del mondo conservatore. Che sarà ripagata con la nomina di giudici conversatori alla Corte suprema. Le nomine costano capitale politico, ma non denaro.Al contrario, i costi di transizione a un sistema privato di sicurezza sociale sembrano aggirarsi sui tre miliardi di dollari. Costi alti e mancanza di consenso faranno svanire nel nulla la privatizzazione della sicurezza sociale. Non avremo neanche la riduzione del disavanzo federale, per due motivi. Il primo è il costo della guerra irachena. C’è un profondo sostegno dell’opinione pubblica americana ai soldati al fronte (il che non vuol dire che ci sia un profondo sostegno per le decisioni che li hanno portato lì). Il prezzo per sostenere i soldati sarà pagato, e ben volentieri. Ma farà parte della spesa pubblica.
    Il secondo motivo è la promessa di ridurre le tasse. Se si tagliano le tasse federali senza ridimensionare contemporaneamente gli interventi del governo federale, il disavanzo pubblico crescerà, invece di diminuire. Si potrebbe ridurre la spesa federale tagliando alcuni programmi. Ma risulta più e più difficile farlo senza toccare un programma caro a una parte della coalizione repubblicana. Si potrebbe allora trasferire alcuni programmi agli Stati. Ma la maggior parte dei governi statali è costituzionalmente vincolata al pareggio di bilancio, e dunque non apprezza molto queste mosse (la legge "No Child Left Behind" - Nessun bambino lasciato indietro - ne è un esempio). Dunque, tenterà il presidente di spostare gli Stati Uniti verso destra? Sì. Ci riuscirà? No. Alcuni giudici conservatori verranno nominati alla Corte suprema, e questo sarà forse il lascito più duraturo del secondo quadriennio Bush.
    Ma una vittoria 51 a 48 per cento nel ballottaggio popolare è una maggioranza, non è un mandato. Il presidente non si candiderà mai più, i repubblicani al Senato e al Congresso, sì. Quando si candideranno tra due o quattro anni, avranno bisogno dell’appoggio della coalizione che ha portato il presidente alla vittoria. Ma le componenti di questa coalizione, per la maggiore parte, saranno ormai deluse


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