Il Tesoro ha varato una legge tributaria ritagliata su misura per l'Eni:
un'addizionale del 4 per cento all'imposta sul reddito delle società posta a
carico delle imprese petrolifere quotate, con capitalizzazione in Borsa
superiore a 20 miliardi di euro. Per trovare i soldi necessari a
pagare l'accordo Italia-Libia, un'azienda ormai privatizzata viene
trattata come fosse pubblica. A rimetterci sono in primo luogo i piccoli
azionisti. Soprattutto, non sembra questo il momento adatto per incrinare la
fiducia dei risparmiatori verso i titoli pubblici.
Quanto fatto dal Tesoro all’Eni è al limite della
correttezza e comunque ben oltre il limite della opportunità e dello
stile. Questo il senso della coraggiosa denuncia pubblica fatta da tre
amministratori indipendenti di Eni, Alberto Clò, Marco Reboa, Franceso
Taranto. (1)
L’episodio è rimasto nel circuito degli addetti ai lavori e va invece
divulgato per l’allarme che lancia e l’ammonimento che contiene.
NUOVO ROUND DI FINANZA CREATIVA
Ma che ha fatto di male Giulio Tremonti? Semplicemente, ha trattato
l’Eni come se fosse un’azienda pubblica anziché
un’impresa ormai privatizzata. L’Eni ha sempre realizzato grandi
profitti, almeno fino all’attuale caduta dei prezzi del petrolio,
distribuendo buoni dividendi, con soddisfazione dello Stato quale
primo azionista e dei moltissimi piccoli azionisti che ai tempi della
privatizzazione erano corsi a comprare titoli “sicuri come le
obbligazioni pubbliche ma redditizie come le azioni private”. Poi
vengono i tempi duri per il governo che deve continuare sulla via del
risanamento della finanza pubblica avviato da Tommaso Padoa Schioppa,
ma anche continuare a spendere. Allora cerca dove prendere soldi senza
aggravare il deficit. E li trova all’Eni, appunto. Ma non come
legittimi dividendi, bensì come parte di utili estratta dalla società
a danno dei piccoli azionisti.
Due i modi escogitati in questo nuovo round di finanza creativa di
Tremonti. Il primo consiste nel fare approvare dal consiglio di
amministrazione dell’Eni, dove i rappresentanti del Tesoro sono in
maggioranza, decisioni di politica sociale, ad
esempio a favore della Sardegna e di Lampedusa, che andrebbero attuate
dallo Stato con i soldi dei contribuenti e non a scapito di un’impresa
e dei suoi azionisti. Il secondo consiste nel fare pagare all’Eni, con
una legge tributaria su misura, gli elevatissimi costi dell’accordo
con la Libia e perfino l’indennizzo agli italiani fuggiti dalla Libia
quarant’anni fa. Naturalmente, una legge su misura è una “non legge”
nella sostanza. Come nella barzelletta didattica raccontata agli
studenti di giurisprudenza, non sta bene camuffare un intervento a
unico destinatario per una legge, che deve essere un provvedimento
anonimo e generale. Invece è proprio quello che è successo con un’addizionale
del 4 per cento all’imposta sul reddito delle società posta a
carico delle società petrolifere quotate, con capitalizzazione in
Borsa superiore a 20 miliardi di euro: l’Eni, appunto, e solo l’Eni.
Come dare torto agli amministratori che avanzano “forti dubbi di
costituzionalità”? Ma qui interessa soprattutto il risvolto economico.
Si sa che la diffidenza dei risparmiatori verso l’investimento in
banche e borsa è uno dei principali fattori della crisi attuale. Il
risparmio viene quindi deviato verso i titoli pubblici,
che possono così essere piazzati a basso saggio d’interesse. Se anche
la fiducia verso lo Stato si incrinasse, si aprirebbero prospettive
davvero preoccupanti. Meglio quindi che Tremonti non tradisca i
risparmiatori e rinunci ai facili introiti di simili manovre, anche a
costo di aumentare il deficit o le imposte.
(1) Si veda Il Sole 24Ore del 5.2.2009.
Foto:
Eni
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