Il centrosinistra ha
annunciato l’intenzione di portare dal 12,5 al 20 per cento l’aliquota dell’ imposta
sostitutiva sulle rendite finanziarie. Il centrodestra critica la
proposta, bollando la manovra come un’imposta patrimoniale
surrettizia che impoverirà tutti, a cominciare dai piccoli risparmiatori. Il
centrosinistra ribatte che non si tratta di imposta patrimoniale e che i
piccoli risparmiatori non saranno toccati.
Entrambi i punti meritano una riflessione.
Patrimoniale o no?
L’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie colpisce i rendimenti del
patrimonio e non il patrimonio stesso. In via di principio, se il patrimonio
non rende, l’imposta non è dovuta.
Perché chiamarla imposta patrimoniale, allora? Perché se i rendimenti sono
inferiori o pari all’inflazione, l’imposta sostitutiva intacca il
valore reale del patrimonio.
Semplificando, se l’inflazione è al 5 per cento e il rendimento è del 5 per
cento, prima del prelievo fiscale a fine anno il risparmiatore avrà un
patrimonio di 105, che corrisponde a un valore reale (al netto
dell’inflazione) di 100. Se l’imposta sostitutiva è pari a 1 (il 20 per
cento di 5), il patrimonio finale scende a 104, che corrisponde, in termini
reali, a qualcosa in meno di 100. Ecco che il patrimonio, sempre in termini
reali, è stato decurtato dall’imposta sostitutiva.
Questo è vero per tutte le imposte che gravano sui rendimenti del capitale.
In un sistema fiscale nominalistico, cioè non corretto per l’inflazione, si
tratta di problema ricorrente che può addirittura avere effetti convenienti
per il contribuente, ad esempio se questi può dedurre gli interessi passivi.
Nell’ambito della tassazione del reddito da lavoro, l’effetto negativo
dell’inflazione è legato alla progressività delle aliquote e si chiama "fiscal
drag". Il correttivo previsto dalla normativa non è mai stato applicato
dal centrodestra.
Sarà anche vero, allora, che la tassazione delle rendite finanziarie
equivale a un’imposta patrimoniale, ma per ragionarne in modo sereno occorre
considerare l’integralità degli effetti derivanti dall’intreccio fra tributi
e inflazione. Ma chi ha "abolito" il correttivo al "fiscal drag" non gridi
allo scandalo se l’aliquota di tassazione dei redditi da capitale sale un
pochino.
I piccoli risparmiatori
L’innalzamento dell’aliquota toccherebbe, in linea di principio, tutti i
risparmiatori.
D’altro canto, già oggi l’imposta sostitutiva tocca tutti, grandi e piccoli
risparmiatori, con la sola eccezione di chi evade tenendo i soldi
all’estero, nascosti al fisco.
Mi pare condivisibile l’intendimento di tenere indenni i piccoli
risparmiatori dell’aumento dell’imposta.
Ma il punto è: come farlo? E poi, una volta deciso come fare, quali saranno
gli effetti sullo sperato maggior gettito?
In teoria, si potrebbe pensare a un sistema in cui le rendite dei piccoli
patrimoni non si tassano, o continuano ad essere tassate al 12,5 per
cento. Oppure, l’aliquota del 20 per cento si applica solo alle rendite che
eccedono un determinato ammontare, che resta tassato al 12,5 per cento
(oppure è esente del tutto).
Il problema è che una delle caratteristiche più apprezzabili, e
assolutamente da preservare, del sistema di tassazione delle rendite
finanziarie è che l’imposta è applicata e versata all’erario direttamente
dalle banche.
L’aliquota unica fa sì che ogni banca applica l’imposta sulle rendite che
questa conosce; non esiste pertanto alcun incentivo fiscale a
suddividere il patrimonio in più banche. Se le aliquote fossero diverse (o
se esistesse un "patrimonio minimo" esente) l’incentivo a rivolgersi a
più istituti diversi per pagare meno imposte sarebbe irresistibile. E
assai modeste sarebbero le probabilità di controllo da parte della pubblica
amministrazione.
Che fare, allora?
Si può ipotizzare un sistema in cui il contribuente possa optare per
la non applicazione dell’imposta sostitutiva da parte della banca. In questo
caso, il contribuente dovrebbe indicare le rendite finanziarie nella propria
dichiarazione annuale dei redditi e applicare le imposte dovute.
Sarebbe allora agevole stabilire una quota di rendita esente da imposta,
restando comunque inteso che, sull’eccedenza, resterà applicabile l’imposta
sostitutiva all’aliquota prevista in generale. Ma sarà il contribuente a
versarla all’erario (e in modo nominativo) e non più la banca.
I controlli sarebbero agevoli: basta richiedere che la banca segnali
all’amministrazione finanziaria i dati del contribuente che ha esercitato
l’opzione e le rendite finanziarie da questi percepite.
Effetti sul gettito
Resta infine da stabilire quali possano essere gli effetti sul gettito
derivanti dall’esenzione fiscale per i piccoli risparmiatori.
Si tratta di esercizio complesso, in quanto la stima dipende non solo dal
nuovo livello dell’aliquota e dell’ammontare della quota esente, ma anche, e
soprattutto, dall’andamento dei mercati finanziari.
A complicare ulteriormente i calcoli c’è la difficoltà di stimare il
numero dei soggetti che effettivamente eserciteranno l’opzione. Come già
detto, oggi il contribuente non è soggetto ad alcun adempimento fiscale e
l’imposta è prelevata, in modo anonimo, dalle banche. Il calcolo di
convenienza dell’opzione potrebbe essere assai difficoltoso e la
necessità di includere le rendite nella propria dichiarazione dei redditi
potrebbe dissuadere molti dall’esercitarla.
Archivio Fisco
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