Una delle regole auree della politica economica dovrebbe essere quella di
utilizzare uno strumento per ogni obiettivo che ci si prefigge. In campagna
elettorale, invece, uno strumento, la riduzione del cuneo contributivo di
5 punti percentuali con un costo stimato di 10 miliardi di euro, è stato
proposto dall’Unione per tre obiettivi distinti: ridurre il costo del lavoro per
le imprese, rimpinguare la busta paga dei lavoratori e incentivare le assunzioni
stabili.
Intendiamoci, stiamo parlando di una proposta condivisibile nelle sue linee di
fondo. Una proposta che, parzialmente, può andare incontro a questi obiettivi.
Ma tutti dovrebbero aver chiaro che "nessun pasto è gratis", altra regola che,
in economia, non sgarra mai: nella misura in cui si riuscirà a centrare uno dei
tre obiettivi, verrà a mancare qualcosa sugli altri due fronti. Per questo è
importante capire come s’intenda attuare la riduzione del cuneo. I suoi
effetti distributivi, ma anche quelli di equilibrio generale nel mercato del
lavoro, non sono facilmente prevedibili, senza conoscerne tanto i destinatari
quanto gli interventi che serviranno a finanziarlo.
Il conflitto tra i primi due obiettivi, per esempio, è lapalissiano. Se i
mitici 5 punti di riduzione del cuneo serviranno a dare una boccata d’ossigeno
ai costi delle imprese, oppure a riportare i consumatori nei supermercati,
dipende da quanto i minori contributi saranno traslati sul salario netto.
Meglio dire, allora, che s’intende restituire alla contrattazione collettiva
(e aziendale?) 10 miliardi di euro. In che misura questo avvantaggerà le imprese
o i lavoratori dipende da molti fattori, che possono variare da settore a
settore.
Che cosa rende conveniente il lavoro atipico?
Anche il terzo obiettivo, l’incentivazione per via
contributiva del lavoro stabile, è in conflitto con gli altri due, soprattutto
con il primo. L’Unione propone di armonizzare le aliquote contributive
che pesano sulle diverse forme di lavoro, riducendo il cuneo sul lavoro standard
e aumentando quello su alcuni contratti atipici, in modo da evitare che
contratti temporanei e con scarse tutele siano scelti dai datori, pubblici o
privati, solo per ragioni di risparmio sui costi.
Si tratta – nuovamente – di un obiettivo condivisibile, ma deve essere
esplicitato chi dovrà pagarne il conto. Innanzitutto, di quali aliquote
contributive stiamo parlando? L’esempio che viene alla mente riguarda le
collaborazioni continuate e continuative, o i lavori a progetto. L’aliquota
contributiva dei co.co.co è attualmente al 18,2 per cento (all’interno di
un progressivo aumento fino al 19 per cento previsto per il 2009), contro il
32,7 per cento dei lavoratori dipendenti. È vero che in molti casi (anche di
enti locali amministrati da entrambi i poli) i lavoratori parasubordinati
vengono usati come dipendenti "mascherati" per risparmiare sui costi
contributivi. Tuttavia, per quanto importante, questa tipologia atipica è
quantitativamente contenuta, mentre l’aumento delle aliquote sul "vero" lavoro
autonomo avrebbe effetti che, comunque li si giudichi, con la stabilizzazione
del lavoro non c’entrano.
Altre forme di lavoro temporaneo, come i contratti a causa mista, godono di
agevolazioni contributive create per favorire categorie sociali o aree del paese
svantaggiate. S’intende mettere mano anche a queste agevolazioni? Per il resto,
esiste un principio di non discriminazione rispetto alle forme contrattuali.
Certo, i contributi sono riproporzionati sulla base della prestazione
lavorativa, che per i lavoratori atipici ha natura ridotta o intermittente, e di
conseguenza molti giovani devono fare i conti con una pensione attesa del
tutto inadeguata. Aiutare questi giovani con integrazioni contributive a carico
della fiscalità generale andrebbe incontro a esigenze di equità (in un mercato
dove i costi della flessibilità sono stati scaricati sulle spalle delle giovani
generazioni). Ma di nuovo, questo non ha niente a che vedere con il proposito di
favorire il lavoro permanente.
Al di là di questi rilievi, e assumendo che l’aumento delle aliquote su lavoro
autonomo e co.co.co possa ridurre le distorsioni a favore dell’utilizzo del
lavoro atipico, c’è un altro punto che deve essere considerato. Se alcune
collaborazioni verranno realmente trasformate in contratti a tempo
indeterminato, questo si ripercuoterà sui costi dei datori di lavoro,
rimangiandosi una parte della voluta iniezione di competitività. Si considerino
due ipotesi estreme.
Ipotesi 1: l’utilizzo del lavoro atipico dipende unicamente dagli
associati risparmi previdenziali. Una volta equiparate le aliquote, tutti i
lavoratori parasubordinati vengono assunti con contratti stabili, facendo
aumentare i versamenti contributivi a loro associati. Considerando un’impresa
con cento dipendenti di cui dieci co.co.co anche assumendo che questi ultimi
guadagnino in media il 10 per cento in meno dei loro colleghi, è facile vedere
come un quinto della riduzione del costo del lavoro stabile sia rimangiato
dall’aumento per i contributi dei collaboratori.
Ipotesi 2: l’utilizzo del lavoro atipico dipende unicamente dai
risparmi attesi per minori costi di licenziamento. In questo caso,
l’armonizzazione contributiva non produce nessun effetto in termini di
conversione dei contratti. Assistiamo a un inasprimento dei contributi sui
lavoratori parasubordinati. E, a seconda dell’elasticità della domanda di questi
lavoratori, possiamo assistere al licenziamento di alcuni di loro.
Ovviamente, la realtà si colloca da qualche parte nel mezzo di queste ipotesi
estreme. Ma la politica deve scegliere chi vuole mettere a tavola attraverso le
sue politiche pubbliche e, soprattutto, chi sarà chiamato a pagare il conto. A
mio avviso, l’armonizzazione contributiva è un intervento condivisibile, ma si
devono tenere presenti tutti i suoi possibili effetti sui costi delle imprese o
sul mercato del lavoro.
Ridistribuire le tutele (non solo previdenziali)
Infine, l’idea dell’Unione di favorire il lavoro standard attraverso una
riduzione delle disparità tra questo e i contratti atipici (anche se solo in
tema di cuneo contributivo) implica una precisa filosofia di redistribuzione
delle tutele e degli oneri sul mercato del lavoro. Si parte dall’idea
(implicita) che, per difendere la centralità del lavoro a tempo indeterminato,
lo si deve rendere meno costoso e più flessibile. Non si capisce perché la
stessa filosofia non venga presa in considerazione sul versante dei regimi di
protezione e dei costi di licenziamento, per esempio, estendendo a tre
anni il periodo di prova per i nuovi contratti a tempo indeterminato,
come
proposto da Tito Boeri e Pietro Garibaldi su lavoce.info. Certo, nel
caso del cuneo, la redistribuzione è politicamente fattibile, perché la
fiscalizzazione dei contributi fa sì che non siano i lavoratori dipendenti a
pagarne direttamente il conto. Ma esisterebbe un modo per ridurre il costo
diretto anche di una redistribuzione delle tutele sul fronte della
regolamentazione: allargare gli ammortizzatori sociali e i servizi di
formazione/informazione per chi si trova costretto a spostarsi da un impiego a
un altro. Argomenti rimasti curiosamente in sordina durante la campagna
elettorale.
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