Il Governo è da tempo diviso sulla tassazione delle
cosiddette "rendite finanziarie". Anche se un aumento dell’aliquota
del 12,5 per cento, attualmente riservata agli interessi diversi da depositi
bancari e postali, ai dividendi e plusvalenze su partecipazioni non
qualificate e ai fondi comuni, è stato per ora escluso dalla Finanziaria, il
dibattito continua. Vediamo di valutare i pro e i contro di una politica di
questo tipo e soprattutto di mettere in evidenza come l’aumento di
gettito non possa essere la sola finalità di un intervento di riforma in
questo campo.
Alcune premesse
Nel nostro paese, i redditi delle attività finanziarie sono tassati
con aliquote diverse: 12,5 per cento e 27 per cento.
Questa differenziazione di aliquote non è giustificata, né sotto il profilo
dell’equità, né sotto quello della neutralità del prelievo. La necessità di
arrivare a un’aliquota uniforme è condivisa sia dal centrodestra che dal
centrosinistra.
Molto diversa è stata però sino ad ora l’opinione circa il livello
preferibile per tale aliquota.
Mentre il Governo di centrosinistra ipotizzava a suo tempo una convergenza
verso un’aliquota del 19 per cento, intermedia fra le due esistenti,
quello di centrodestra prevedeva, nella legge delega di riforma del sistema
erariale (legge 80/2003), un’aliquota unica al più basso dei livelli
attuali: il 12,5 per cento.
Timori infondati
I motivi a favore di una tassazione molto contenuta dei redditi
finanziari, illustrati dall’attuale Governo nella relazione alla legge
delega, e che ritornano periodicamente nel dibattito, sono fondamentalmente
due.
Vi è innanzitutto il timore che l’aumento della tassazione sostitutiva del
12,5 per cento possa determinare una fuga di capitali verso gli altri
paesi (che, come il nostro, non prelevano alcuna tassazione sui non
residenti) rivelandosi un boomerang non solo per l’erario, ma anche per il
paese nel suo complesso.
Questo timore sembra eccessivo. Infatti, la sensibilità della maggior parte
dei sottoscrittori al differenziale di tassazione fra interessi interni ed
esterni - anche in ragione dell’esistenza di misure quali le ritenute di
ingresso e il monitoraggio dei flussi di capitali da e per l’estero - è meno
marcata di quanto si tenda a fare apparire. Va poi ricordato che nel luglio
2005 è entrata in vigore una direttiva europea che ha la finalità di
rendere possibile ai singoli Stati tassare i propri residenti per gli
interessi percepiti all’estero. Questo risultato discende dalla previsione
di un adeguato scambio di informazioni fra paesi membri. (1)
Nonostante i limiti della direttiva, è evidente che essa costituirà un
disincentivo alle fughe di capitali.
Un altro timore, anch’esso largamente infondato, è che, a fronte di un
aumento dell’imposta sui titoli pubblici, lo Stato si trovi costretto a
corrispondere tassi di interesse più elevati per poter collocare la
propria offerta di titoli. Anche in questo caso il provvedimento si
rivelerebbe un boomerang: al maggior gettito dell’imposta corrisponderebbero
maggiori spese per interessi.
Ci si dimentica però che i soggetti interessati dall’aumento della
tassazione detengono meno di un quarto dei titoli in circolazione:
difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di
offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei
tassi di interesse reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione
monetaria europea. Questi soggetti, inoltre, difficilmente troverebbero
conveniente rivolgersi ad altri investimenti finanziari, posto che comunque
la nuova aliquota sarebbe applicata uniformemente a tutti i tipi di reddito
da attività finanziaria.
L’aumento del gettito non dovrebbe essere il principale obiettivo
Recentemente, la proposta di unificare la tassazione dei redditi
finanziari a un livello sensibilmente più alto rispetto al 12,5 per cento,
con la finalità principale di reperire gettito per la copertura delle più
diverse esigenze, è comparsa ripetutamente anche nel dibattito all’interno
della maggioranza.
L’aumento del gettito non può però essere il principale obiettivo cui
finalizzare un intervento di riforma della tassazione dei redditi
finanziari. Da un lato infatti, l’andamento ballerino dei mercati
finanziari, in particolar modo per quanto riguarda le plusvalenze, rende
arbitraria ogni
previsione circa tale aumento. Dall’altro, la scelta del livello della
aliquota non può essere il risultato di considerazioni estemporanee, ma deve
dipendere dal sistema di imposizione societaria e più in generale
diretta (sui redditi di capitale, impresa e lavoro) che si intende adottare.
La discussione che bisognerebbe fare
L’innalzamento dell’aliquota del 12,5 per cento sugli interessi sarebbe
sicuramente auspicabile, per motivi di equità: la scala delle aliquote
dell’imposta su tutti gli altri redditi parte da un’aliquota minima del
23 per cento.
I redditi finanziari tassati al 12,5 per cento includono però anche i
dividendi e le plusvalenze. I dividendi sono utili che hanno già subito
l’Ires in capo alla società. Lo stesso accade alle plusvalenze azionarie,
nella misura in cui esse riflettono l’esistenza di utili accantonati a
riserva. Diverso è il caso di plusvalenze di altra natura, che andrebbero
pertanto tenute opportunamente distinte (come già accade nella tassazione
delle plusvalenze per le società di persone). Con un’aliquota al 23 per
cento, i redditi provenienti da investimenti, finanziati con capitale
proprio e già tassati in capo alla società, sopporterebbero un’aliquota
complessiva, senza contare l’Irap, del 48,41 per cento, addirittura
più alta dell’aliquota massima che sosterrebbero gli azionisti che detengono
quote rilevanti del capitale. (2)
Le società di capitali con azionariato diffuso sarebbero discriminate
anche rispetto alle società di persone e alle imprese soggette a Irpef, i
cui utili resterebbero tassati con aliquote che vanno dal 23 al 43 per
cento. Non sarebbe certo una politica idonea ad allargare il ricorso al
mercato da parte delle imprese, a diffondere il capitale azionario tra
il pubblico dei risparmiatori, a rafforzare il sistema produttivo e
stimolare la crescita dimensionale delle imprese.
C’è una soluzione?
La soluzione a questi problemi richiede di definire prioritariamente il
modello di tassazione che si vuole adottare.
Ad esempio, nel programma del precedente Governo di centrosinistra,
l’aliquota proposta per la tassazione, uniforme, dei redditi finanziari era
pari all’allora aliquota base dell’Irpef (il 19 per cento) e, nell’ambito
del prelievo societario, alla tassazione riservata al rendimento "normale"
del capitale proprio, in virtù del meccanismo della Dit. Il sistema verso
cui si tendeva era un sistema di tassazione duale, analogo a quello
dei paesi nordici, in cui a tutti i redditi di capitale (finanziario e
reale) è riservato un prelievo omogeneo, coordinato con quello a cui vengono
assoggettati i redditi di lavoro. Si potrà concordare o meno con un sistema
di questo tipo, ma certamente va riconosciuto che ha una sua ben precisa
razionalità e coerenza.
Qualsiasi sia il sistema adottato, per non penalizzare gli investimenti
in capitale di rischio, la riforma della tassazione delle rendite
finanziarie dovrebbe uniformare, e aumentare in media, la tassazione degli
interessi e di quelle plusvalenze che non sono il riflesso di utili
trattenuti e già tassati presso l’impresa. Il "normale" rendimento del
capitale proprio (il costo opportunità di investire nel capitale di rischio)
andrebbe invece opportunamente detassato. In questo contesto di più ampia
riforma, i recuperi di gettito attesi potrebbero facilmente rivelarsi un
miraggio.
(1) Per gli interessi pagati in Belgio, Lussemburgo e Austria, che non
hanno aderito subito allo scambio di informazioni e nei principali paesi
terzi (primo fra tutti la Svizzera), è prevista l’applicazione di misure
"equivalenti": una ritenuta alla fonte inizialmente pari al 15 per cento, ma
destinata a crescere fino al 35 per cento, il cui gettito deve essere
retrocesso, per il 75 per cento, al paese di residenza del percettore.
(2) Nel qual caso, tipico delle società a ristretta base azionaria, i
dividendi vanno inclusi per il 40 per cento nell’imponibile dell’imposta
personale e assoggettati a Irpef con aliquota massima del 43 per cento.
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