Si moltiplicano le aspettative di un intervento governativo sull’Irap.
Una volta tanto, si tratta di aspettative fondate. C’è una necessità
tecnica, indotta dalla probabile decisione negativa della Corte di
giustizia europea sulla compatibilità del tributo con la disciplina
comunitaria sull’Iva. Ma
soprattutto, c’è una necessità politica. Il neonato Governo si sente
obbligato a spostare sul fronte delle imprese le facilitazioni tributarie
originariamente previste per le famiglie, vista la crisi economica e la
recente sconfitta elettorale. Ma come farlo?
Qui il dibattito
è aperto, e la materia si configura assai complessa.
Ogni riforma prefigurabile deve infatti soddisfare simultaneamente un
insieme di requisiti giuridici e tecnici, ma deve anche tener conto degli
effetti sul gettito, di quelli distributivi, di quelli sugli incentivi e
così via. Come se non bastasse, c’è un ulteriore elemento da
considerare: l’impatto sull’autonomia regionale.
Regionale, ma sperequata
In effetti, l’Irap è la principale imposta delle Regioni. Ne
finanzia da sola quasi la metà delle spese e su di essa le singole
Regioni godono di un’ampia autonomia, sia in termini di aliquote che di
riparto dell’onere tra i contribuenti. Inoltre, l’evidenza disponibile
dimostra che finché hanno potuto, le Regioni hanno effettivamente cercato
di "gestire" il tributo come uno strumento
distributivo e di sviluppo del territorio.
Ma l’Irap è davvero una buona imposta per degli enti territoriali? Su
questo fronte, le critiche sono state tanto feroci quanto poco
convincenti. (1) Il vero problema del tributo come imposta
regionale è la sua fortissima sperequazione sul territorio, non
sorprendente visto che la base imponibile è (una definizione del) il
valore aggiunto. Per la componente "privata", l’unica su cui
le Regioni hanno spazi di manovra, la differenza tra la Regione più ricca
e quella più povera in termini pro-capite raggiunge il 700 per cento.
Queste differenze possono certo essere colmate dal sistema perequativo.
Che però è tanto più complesso tecnicamente, e tanto più difficile da
gestire politicamente, quanto maggiori sono le differenze ex ante che deve
compensare. L’esperienza del decreto 56/2000 e l’incapacità della
politica di proporre un sistema di federalismo fiscale convincente a
quattro anni dall’approvazione del Titolo V, sono la prova provata di
queste difficoltà. Dunque, qualunque intervento di riforma radicale
sull’Irap deve anche farsi carico di sostituirla con un tributo che
offra altrettanti margini di manovra alle Regioni e che sia nel contempo
anche meno sperequato. Su questo c’è un’ampia discussione, di cui
diamo conto nell’articolo
a fianco.
Le alternative concrete
In realtà, le proposte di riforma "concrete" dell’Irap di
cui si parla, non comportano né una riduzione corrispondente delle spese
né tanto meno una riforma radicale del tributo, ma piuttosto una sua
riformulazione. Questo rende da un lato il problema più semplice, perché
modifiche limitate hanno anche effetti ridotti sia sul gettito che sugli
effetti distributivi della riforma. Dall’altro, lo rende anche più
complesso perché richiede che comunque l’eventuale gettito perduto
venga recuperato da qualche parte. Vediamo le proposte in dettaglio,
seguendo lo schema di Giannini e Guerra.
L’ipotesi dello "spacchettamento" non richiede commenti
particolari. Nella sua versione estrema, si tratterebbe di mantenere
l’imposta cambiandone il nome. Con qualche maggiore difficoltà sul
piano dei rapporti tra governi nel caso di alcune modifiche possibili (per
esempio, la deducibilità dei re-introdotti contributi sul costo del
lavoro) su cui non vale la pena di insistere qui, l’autonomia regionale
sui nuovi tributi potrebbe essere mantenuta inalterata, così come
inalterate rimarrebbero naturalmente le attuali difficoltà indotte dalla
sperequazione della base imponibile. L’ipotesi di un’abolizione
totale del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap avrebbe
invece effetti rilevanti sia sul gettito che sull’incidenza effettiva
del tributo. Difficile dire per esempio in quale misura la riforma si
tramuterebbe in un incremento dei profitti, dei salari o in una riduzione
dei prezzi. Il problema è che, a seconda di queste diverse ipotesi di
traslazione, la logica vorrebbe che la compensazione del gettito venisse
ricercata su cespiti di imposta alternativi, Ires e Irpef nel primo caso,
Iva nel terzo. Gli effetti redistributivi sarebbero comunque
pesanti, non solo tra i percettori dei vari redditi, ma anche in termini
di cadute differenziate di gettito tra le varie Regioni. In termini
relativi, ne soffrirebbero di più le Regioni più ricche, non
necessariamente un aspetto negativo, vista la necessità di riequilibrarne
la dotazione finanziaria.
Sul piano regionale, per mantenere spazi di autonomia, la compensazione
andrebbe ricercata prevalentemente sull’addizionale sull’Irpef, con
tutti i caveat discussi nell’altro mio articolo. Ma sarebbe opportuno
anche un incremento della compartecipazione
regionale all’Iva, per avere più spazi a disposizione nel fondo
perequativo per compensare gli effetti della riforma sulle Regioni.
Nel terzo caso, l’abolizione solo degli oneri contributivi dalla
base imponibile dell’Irap (o del tributo che la sostituirebbe sui
redditi da lavoro dipendente), il problema si presenta più agevole e una
possibile soluzione, anche per quanto riguarda le Regioni, è già
adombrata da Giannini e Guerra. Su questo c’è solo da notare che,
mentre un innalzamento delle imposte sulle rendite finanziarie appare
auspicabile in generale sia per motivi di equità che di efficienza, esso
non interessa che marginalmente il problema della finanza regionale e
soluzioni alternative potrebbero essere trovate. È probabile che per
ragioni di gettito e di opportunità politica, le proposte di revisione
dell’Irap si risolvano in una riforma limitata e che dunque
limitati saranno anche gli effetti sulla finanze regionali. In un certo
senso è un peccato, perché sarebbe stato opportuno che, mentre si
discute di riforma dell’Irap, si cercassero anche soluzioni più
soddisfacenti al problema dell’individuazione di un sistema tributario
appropriato per le Regioni italiane.
(1) Le critiche principali rivolte in passato all’Irap su
questo fronte, di nuovo riprese nel dibattito di questi giorni, sono
essenzialmente due: 1) l’Irap non rispetta il principio del beneficio:
si tassano le imprese per finanziare un servizio alle famiglie, la sanità;
2) un’imposta territoriale sulle imprese è soggetta a fenomeni di
competizione fiscale, data la mobilità delle imprese tra Regioni. Ma
queste critiche non sono molto convincenti: 1) non è chiaro se l’Irap
sia davvero un’imposta sulle imprese, e comunque nella sua base
imponibile ci sono i redditi che vanno alle famiglie; 2) l’ampliarsi
delle funzioni attribuite alle Regioni con il Titolo V e l’abolizione
del vincolo di destinazione alla sanità del gettito Irap depotenzia la
critica 3) la competizione fiscale nel caso dell’Irap è certamente
limitata, dato che il riparto tra Regioni della base imponibile è basato
su un principio di "fonte" (la distribuzione della forza lavoro
sul territorio nazionale) e non di residenza. Piuttosto, da un punto di
vista della validità dell’imposta come tributo regionale, più
preoccupante è il problema dell’"esportazione
dell’imposta", cioè la possibilità che attraverso la traslazione
dell’imposta sui prezzi, l’Irap sia esportata sui residenti di altre
Regioni. Ma questa è un’altra storia.
Archivio Fisco
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