La riforma dell'Ire (ex Irpef), fortunosamente partorita
all'ultimo momento da un Governo in chiaro affanno, ha scatenato l'atteso
putiferio politico. Per la maggioranza è una svolta epocale, per
l'opposizione una mancia elettorale. Il tasso di retorica nel dibattito
politico ha già superato i livelli di guardia e diventerà straripante in
futuro, se, com'è possibile, il capo del Governo approfitterà del
momentaneo vantaggio mediatico per tentare di forzare le elezioni
politiche anticipate già nel 2005. Prima cioè che un'opposizione con
tempi di reazione biblici riesca a organizzarsi, e prima che i probabili
effetti negativi della riforma sui conti pubblici si manifestino
interamente. In attesa di essere travolti dal marasma ideologico
incombente, tentiamo qualche puntualizzazione.
Effetti economici. Ed elettorali
In primo luogo, la ratio della riforma è più politica che economica.
È evidente che se l'obiettivo della riforma fosse stato davvero il
sostegno all'economia, come ufficialmente dichiarato, i 6,5 miliardi di
euro avrebbero potuto essere spesi molto
meglio. I supposti effetti positivi sui consumi di un ritocco alle
aliquote dell'Ire sono assai incerti. Anche se si manifestassero, poi,
potrebbero finire solo con il danneggiare la nostra bilancia
commerciale, visto che il paese ha fondamentalmente un problema di
competitività dell'offerta, non di carenza di domanda. Tagli alle imposte
sulle imprese, sui contributi sociali, oppure il finanziamento di
strumenti più moderni di supporto alle necessarie ristrutturazioni
industriali, sarebbero stati di gran lunga più utili.
Ma la riforma Ire nulla ha a che vedere con questi obiettivi. L'Ire
raggiunge in modo molto più diretto di qualunque altra imposta o
contributo un numero molto maggiore di contribuenti-elettori. Il
ritorno elettorale di un euro di Ire in meno è dunque un multiplo di
qualunque altro intervento agevolativo di pari misura. Una lezione
elementare, che il centrosinistra avrebbe fatto bene a ricordarsi nel
2000, quando esso stesso varò la propria manovra pre-elettorale,
sprecandola in mille rivoli.
In secondo luogo, la "copertura" della riforma (tra
posticipi di condoni e insostenibili blocchi nel turnover dei dipendenti
pubblici) è fantomatica e ha cominciato a sfaldarsi ancor prima che il
decreto raggiungesse il Senato, con le concessioni
fatte al ministro dell'Istruzione. L'unico sostegno certo alla riduzione
delle imposte sul reddito è, paradossalmente, l'incremento in altre
imposte (tabacchi, bollo), che però al massimo coprono un terzo della
riforma. Peggio ancora, la riforma si inserisce in un quadro finanziario
pesantemente deteriorato, con la manovra da 24 miliardi di euro appena
varata che fa già acqua da tutte le parti. Infine, c'è il sospetto che l'impatto
sul gettito della riforma sia maggiore di quanto stimato dal Governo.
In particolare, c'è da chiedersi quanto i tecnici del Tesoro abbiano
tenuto in conto delle reazioni dei contribuenti ai nuovi criteri di
calcolo dell'imponibile Ire (aliquote più deduzioni decrescenti), per
esempio per quanto riguarda la decisione relativa alla distribuzione
degli oneri tra componenti della famiglia con diverse situazioni
reddituali. Insomma, non c'è dubbio che la riforma Ire imporrà ulteriori
e seri problemi alle esauste finanze pubbliche.
Per il Governo si tratta essenzialmente un problema di timing. Non
poteva aspettare ancora a imporre la riduzione delle imposte sull'Ire,
altrimenti si sarebbe "bruciato", forse definitivamente. Adesso
il problema è vedere quando il vantaggio politico della riforma verrà
annullato dai necessari e impopolari successivi interventi compensatori.
L'insofferenza verso i vincoli di Maastricht va vista anche in questo
contesto. Può darsi che vi sia dietro anche un calcolo politico più
sofisticato: un eventuale futuro Governo di centrosinistra si troverà a
raccogliere i cocci di una situazione disastrata, dovrà imporre misure
impopolari, prevedibilmente spaccandosi al proprio interno, e così aprirà
la strada a una possibile rapida rivincita del centrodestra.
La questione della progressività
Infine, molto del dibattito politico si concentrerà sugli effetti
redistributivi della riforma, con l'opposizione all'attacco per gli
effetti negativi sulla progressività dell'imposta sul reddito.
L'argomento è discutibile o per lo meno andrebbe qualificato. Non c'è
dubbio che la riforma avvantaggi i redditi Ire più elevati, nonostante la
deduzione decrescente sul reddito, la no tax area, e anche mettendo in
conto la prima
tranche della riforma.
Ma bisogna ricordarsi che l'Ire è in realtà molto lontana dalla imposta
sui redditi "onnicomprensiva" della sua originale impostazione.
Molti dei redditi sono o legalmente esclusi (i redditi da capitali)
o largamente erosi (redditi agricoli e dei fabbricati) oppure
semplicemente ampiamente evasi (i redditi da lavoro autonomo), tant'è che
la base imponibile dell'Ire è per l'80 per cento composta da redditi da
lavoro dipendente. La struttura delle aliquote Ire pre-riforma non è
molto ripida in un'ottica internazionale, ma ha la caratteristica di
imporre aliquote molto elevate già a livelli relativamente bassi di
reddito. Così com'è, l'Ire sembra fatta apposta per penalizzare certe
categorie di contribuenti a scapito di altri, così perpetuando una
disuguaglianza preesistente.
Esiste sicuramente un problema di distribuzione più equa del
carico tributario tra i contribuenti, ma questo potrebbe forse essere più
utilmente affrontato aumentando le aliquote sui redditi da capitale e le
attività finanziarie (le più basse d'Europa) e reintroducendo la
tassazione sui trasferimenti di ricchezza, almeno per i grandi patrimoni.
E naturalmente aggredendo l'evasione fiscale, alimentata a colpi
di condoni dal Governo di centrodestra.
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