Sono passati solo pochi mesi da quando il ministro Domenico Siniscalco,
da poco insediatosi sulla poltrona di Quintino Sella, inaugurò una nuova stagione
di trasparenza sulla finanza pubblica. Le cifre esposte nel Dpef
erano da brividi. Solo per rientrare nei limiti dei parametri di
Maastricht servivano perlomeno 40 miliardi di euro su due anni. Per
finanziare una riduzione tutto sommato contenuta della pressione fiscale
ne servivano altri 12. Nel complesso, il 4 per cento del Pil, da
reperire soprattutto con tagli strutturali di spese e aumenti di imposte.
Ma in politica, soprattutto per un Governo non proprio granitico, quattro
mesi possono essere un’eternità. E così trasparenza e realismo sulla
situazione dei conti pubblici sono stati presto sostituiti da confusione e
opacità. Proviamo a ricapitolare quanto è successo.
Cronaca dello sgretolamento della legge di bilancio
A settembre viene portata in Parlamento la Legge finanziaria.
Una scatola semi vuota, fatta di tagli di spesa di dubbia
efficacia (è il parere della Corte dei conti) e assai poco
trasparenti (il servizio Bilancio della Camera produce un documento di 170
pagine di rilievi e richieste di chiarimento), di aumenti
estemporanei di imposta , di misure a rischio bocciatura da Eurostat (Anas),
di provvedimenti una tantum (potevano mancare?) e basata su ipotesi
ottimistiche di crescita.
A ottobre, comincia da parte della stessa maggioranza che l’ha
presentata, lo svuotamento della Finanziaria, per quel poco di sostanziale
in essa contenuto. La revisione degli studi di settore da automatica
diventa discrezionale e soggetta ad accordo preventivo con le parti
interessate, l’adeguamento degli estimi catastali viene rinviato sine
die, si amplia l’area di esenzione dal campo di applicazione del
nebuloso tetto del 2 per cento alla crescita della spesa, aprendo prima
falle e poi voragini nel bilancio pubblico.
A novembre subentra il caos. Perse quelle poche (vere) risorse
individuate dalla Finanziaria, mancano i soldi per coprire i tagli di
imposta, a lungo promessi. Ma la politica non ci sta, pretende gli sgravi
fiscali e si rifiuta di tagliare le spese, incurante dei moniti del Fondo
monetario secondo cui, anche in assenza di sgravi fiscali, servirebbero
perlomeno 6-7 miliardi di minori spese semplicemente per rimanere sotto il
tetto del 3 per cento nel 2005.
L’ingegneria fiscale
In un mondo ideale (quello di Gordon Brown?) la politica economica
sarebbe caratterizzata da rigore e stabilità, offrendo segnali il
meno possibile contraddittori tra di loro, indispensabili per consentire a
imprese e famiglie di investire nel proprio futuro e in quello del paese.
E in Italia? Dal bonus figli al bonus nonni. Dalle due aliquote Ire alle
4+1. Dalla franchigia al tetto sulle deduzioni Irap. Dalla certificazione
dei diritti alla pensione d’anzianità alla probabile chiusura delle
finestre. Dal trasferimento del Tfr ai fondi pensione con compensazione
per le imprese al trasferimento del Tfr all’Inps senza compensazione.
L’ingegneria fiscale di questo Governo sembra non avere limiti
spazio-temporali. Si cambia tutto e fino all’ultimo secondo disponibile
per la presentazione di un testo in Parlamento. Non è certo la prima
volta che un esecutivo interviene in corso d’opera sulla struttura di
una legge di bilancio già in discussione alle Camere, ma non si era mai
arrivati a questo punto del processo di bilancio con tanta incertezza. Il
fatto più grave è che ogni nuova misura proposta, mentre è ancora allo
studio dei tecnici e oggetto di trattativa nella maggioranza, viene
immediatamente annunciata pubblicamente e in modo confuso. È la strategia
degli annunci. La stessa che ha fatto sì che gli sgravi Irpef
siano stati "venduti" come imminenti alle famiglie da anni,
quelli sull’Irap abbiano una storia non meno lunga di annunci alle
imprese. A cui spesso si aggiunge la strategia dell’estemporaneità. Due
anni fa il Governo senza alcun preavviso cessò di finanziare misure che
avevano stimolato la conversione di lavori temporanei in contratti
permanenti (il bonus occupazione), senza curarsi del fatto che le imprese
avevano già programmato e spesso messo in atto la propria politica di
assunzioni proprio facendo conto su tale incentivo. Oggi si annuncia la
sua reintroduzione sotto spoglie diverse (lo sgravio Irap condizionato
alle assunzioni), salvo poi rimettere tutto nel cassetto dopo l’ennesimo
ripensamento del presidente del Consiglio.
Incertezza come fonte di sprechi
C’è un costo in tutto questo bailamme di cifre e di proposte.
Quello di buttare via i pochi soldi disponibili per politiche che ci
portino ad agganciare la ripresa internazionale. Gli incentivi e gli
sgravi fiscali servono per indurre comportamenti "virtuosi": si
intende spingere le famiglie ad aumentare i consumi oppure le imprese ad
assumere più lavoratori e investire in ricerca e sviluppo. Ma se domina l’incertezza
sulla natura, l’entità e la durata degli interventi, i beneficiari
saranno solo coloro – famiglie e imprese – che avrebbero aumentato i
consumi o assunto nuovi lavoratori anche senza il contributo
dello Stato. Con questi interventi si hanno solo dei "windfall
beneficiaries", degli operatori che si trovano un regalo inatteso
quanto inutile.
E gli ammortizzatori sociali?
Certo, quella di tagliare le tasse è stata una promessa. Ma quante
altre ce ne sono state? Oltre a quello con gli italiani, il Governo ha
sottoscritto un contratto che ha valore legale col paese, il Patto per
l’Italia. Prevede una mini-riforma degli ammortizzatori sociali.
Meglio di niente. Perché non cominciare dal rispettare quel Patto dando
più certezza alle famiglie, paurose di perdere lavoro e di diventare più
povere (entrambi i rischi sono aumentati nell’ultimo decennio)?
Forse è venuto il momento per i ministri "tecnici" di fare
sentire la propria voce invece che nascondersi dietro al paravento del
presidio dei saldi. Conta tantissimo cosa si taglia e come si
spende, non solo il saldo. E conta anche il modo con cui si arriva a
decidere e come lo si comunica all’opinione pubblica.
Archivio Fisco
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