Per riavviare le politiche di prestito occorre
fare pulizia dei titoli tossici. Ma le banche
sono in grado di farlo da sole oppure lo Stato
deve gestire direttamente gli istituti, oltre
che comprare i titoli? Si tratta di scelte
pragmatiche, non ideologiche. E in Italia?
Prima di tutto bisogna vedere se c'è davvero
necessità di nazionalizzazioni. Poi dare
adeguate garanzie sulla salvaguardia
dell'autonomia della gestione delle politiche
di credito e sulla durata dell'intervento
statale. La storia passata e recente del
nostro sistema bancario invita alla
diffidenza.
“Nazionalizzazione” è
parola evocativa, impregnata di grandi
significati ideologici e ricca di
richiami storici: proprio per questo
andrebbe utilizzata a ragion veduta, con
grande cautela e soprattutto andrebbe
tenuta fuori dalle tecniche
dell’annuncio e successiva smentita da
noi tanto di moda. In questo momento, i
mercati hanno estremo bisogno che da
governi e legislatori arrivino messaggi
chiari, interventi rapidi e coerenti,
misure efficaci. Da sei mesi a questa
parte, tutti gli stati sono impegnati in
una gigantesca opera di recupero della
stabilità dei sistemi finanziari e di
stimolo delle economie. Le banche sono
l’anello più delicato della catena, se
viene meno si corre il rischio di un
precipizio senza fine: di qui
l’affannarsi al loro capezzale con aiuti
pubblici e salvataggi. FARE PULIZIA
L’intervento diretto dello stato nel
capitale, anche con quote maggioritarie,
ha avuto sinora l’effetto di
fronteggiare le situazioni più difficili
delle banche a rischio di crollo. Ma,
basta dare un’occhiata alle rassegne
della stampa straniera, non ha inciso
sensibilmente sul riavvio delle
politiche di prestito. E anche
dove si sono fatte vere e proprie
nazionalizzazioni, con tutti i crismi di
una legge che fa passare direttamente
sotto il settore pubblico una banca,
come è avvenuto con la Northern Rock, la
strada non solo è in salita, ma anche
lastricata di ostacoli e di azioni
giudiziarie lanciate dagli azionisti
espropriati: proprio in questi giorni si
è conclusa la prima vertenza con la
vittoria del governo di Sua Maestà. Si è
così diffusa la consapevolezza,
testimoniata dall’inversione a U del
piano di salvataggio americano, che il
ritorno alla normalità presuppone la
pulizia dalle tossine ancora presenti
nei bilanci delle banche. A prescindere
dalle
modalità tecniche su come far pulizia,
il vero problema è se le banche siano
adesso capaci di farlo da sole o se
invece ci sia bisogno che lo stato oltre
che compratore dei titoli
tossici, diventi anche e
contemporaneamente gestore delle banche
stesse. Senza tener conto poi dell’ovvia
e giusta preoccupazione di tutelare i
taxpayers per tutti i soldi che
hanno, loro malgrado, dovuto tirar
fuori.
POCA IDEOLOGIA, MOLTO PRAGMATISMO
La pubblicizzazione delle banche,
quindi, ha ben poco di ideologico e
molto di pragmatico, e Gordon Brown,
almeno a leggere le dichiarazioni
ufficiali del governo inglese al
Parlamento all’epoca del salvataggio
della Northern Rock, se la sarebbe
volentieri risparmiata. Eppure, sul
suolo italico va presa con le molle.
Innanzitutto perché bisogna prima vedere
se ce n’è bisogno. Le Autorità
di vigilanza hanno da poco
emanato una comunicazione che invita
banche, assicurazioni e società quotate
a dare la massima trasparenza ai rischi
finanziari e di liquidità. (1)
Soltanto una puntuale verifica di
eventuali criticità giustifica
interventi di salvataggio. E
l’acquisizione del capitale della banche
dovrebbe rispettare alcuni requisiti
fondamentali per essere veramente
efficace e non riflettere invece ben
altri interessi, del tutto estranei a
quello alla stabilità del sistema. In
primo luogo quando le Stato entra deve
anche dire come e quando esce:
l’intervento, cioè, deve essere
temporaneo e su questo bisogna dare
adeguate garanzie. Ad esempio come fa la
legge inglese, individuando con
precisione i presupposti che legittimano
la nazionalizzazione e il periodo
massimo entro la quale può essere fatta.
(2)
Inoltre, affidandosi alle Autorità di
vigilanza, si potrebbero definire le
soglie patrimoniali che una volta
recuperate non giustificano più la
permanenza del capitale pubblico. E
bisogna soprattutto dare solide
garanzie, non bastano le
promesse generiche, sulla salvaguardia
dell’autonomia della gestione delle
politiche di credito della banca, per
togliere ogni sospetto che queste
vengano piegate alle esigenze del nuovo
proprietario.
Infine, se giustamente si chiede la
massima trasparenza
alle banche, bisogna con maggior forza
chiedere la massima trasparenza e
accountabilty allo stato. I contribuenti
hanno diritto a vedere i loro soldi
utilizzati per il bene collettivo e non
per fare un favore agli azionisti delle
banche, ma hanno anche diritto a
controllare che i soldi non prendano
altri sentieri e possibilmente ritornino
in tempi brevi nelle casse dello stato.
Alla luce dell'antica storia del nostro
sistema bancario che, non
dimentichiamolo, per un certo periodo ha
avuto il poco invidiabile primato di
essere uno dei più “pubblici” del mondo,
e di quella più recente dell’intervento
statale, ogni riferimento all’Alitalia è
puramente casuale, e alla luce, infine,
delle continue dichiarazioni sui
giornali di chi vorrebbe dare
indiscriminatamente soldi a tutte le
imprese a prescindere da rigorosi
processi dei selezione, c’è da fidarsi?
Purtroppo, da noi il problema non è solo
nelle banche, ma anche e soprattutto
nello stato. E questo rende le cose
terribilmente più difficili.
(1) Documento Banca
d’Italia/Consob/Isvap n. 2 del 6
febbraio 2009.
(2)Banking (special
Provisions) Act 2008 del 21 febbraio
2008.
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