Si riaffaccia sui mercati il rischio-paese, confermato dalla pessima
situazione economica e finanziaria di numerosi stati. In Italia è visto come
un limite all'attuazione di una politica economica espansiva. E la questione
torna a essere quella di garantire la sostenibilità del debito in maniera
credibile. La strada migliore è un'azione volta a innalzare il tasso di
crescita del prodotto. Se la crescita non ripartirà, anche gli equilibri del
nostro bilancio pubblico resteranno fragili, obbligando il governo a
politiche di carattere quasi punitivo nelle fasi basse del ciclo.
“Il fallimento di Lehman a metà settembre 2008 ha fatto precipitare la
situazione ampliando enormemente l’area del rischio: se Lehman
fallisce, allora chiunque può fallire, anche un Paese (piccolo) come
l’Islanda, e perché no anche l’Ungheria o l’Argentina (…)”.
(1) CRISI E RISCHIO PAESE
È da metà settembre che sui mercati emerge di nuovo un “rischio-paese”,
confermato dalla pessima situazione economica e finanziaria in cui si
trovano numerosi stati. Come altre volte in passato, ciò si accompagna
a una flight-to-quality che privilegia i paesi maggiori
all’insegna del principio, tante volte ascoltato nell’ultimo anno, del
too-big-to-fail. Ad esempio, nonostante la gravità della
situazione finanziaria ed economica degli Stati Uniti,
sicuramente oggi fra quelle più peggiorate al mondo, dopo metà
settembre è il dollaro Usa che si rivaluta e sono i tassi Usa che si
riducono di più.
In ambito euro, il “rischio-paese” colpisce
soprattutto le nazioni meridionali: Italia, Grecia, Portogallo,
Spagna. Nel dibattito politico italiano, ciò viene interpretato come
un nuovo limite, di mercato e quindi più rilevante dei soliti appelli
di Bruxelles, alla possibilità di una politica economica espansiva. Il
mercato finanziario ci manda a dire che abbiamo
troppo debito pubblico e quindi non se ne può fare più di quanto già
previsto: non potendo rispettare il 60 per cento, bisognerebbe almeno
rispettare il 3 per cento. Questa rimane la posizione ufficiale del
governo, nonostante il presidente del Consiglio avesse inizialmente
tentato una parziale correzione, ridimensionando la “pagella” che
viene dai mercati, con la tesi che l’elevato risparmio e il poco
debito privato italiano misurano una nostra posizione relativa
migliore quanto alla sostenibilità del debito pubblico.
Ma è vero che lo spread, rispetto al
benchmark dato dal Bund tedesco, che si è aperto dopo il
fallimento di Lehman a metà settembre, serve a delimitare i gradi di
libertà della nostra politica di bilancio? Oppure come sostenuto da
Martin Feldstein, misura la “tenuta” della zona-euro e quindi la
capacità di sopravvivenza dell’euro? Più in generale, in epoca di
totale sfiducia nei confronti della capacità dei mercati di prevedere
i guai che man mano si verificano, è possibile attribuirgli la
corretta misura dell’interesse dell’Italia?
Poiché lo spread sui titoli di Stato rappresenta una misura della
percezione che ha il mercato del rischio che corre chi acquista titoli
di Stato italiani, è chiaro che il tema su cui riflettere è relativo
alla probabilità che l’Italia possa essere colpita da un
default del debito negli anni a venire. Se a tale evento
si attribuisse una probabilità positiva, allora saremmo tornati
indietro di quindici anni e la stabilità finanziaria del paese
risulterebbe nuovamente motivo di preoccupazione. Viceversa, potrebbe
trattarsi di un cambiamento nell’atteggiamento dei mercati, divenuti
più accorti nel prezzare un rischio che non sarebbe però mutato
rispetto a pochi mesi fa. Infine, potremmo essere un paese
sostanzialmente solido, ma la cui percezione da parte dei mercati, in
una fase difficile come quella attuale, è distorta: un effetto di
indiscriminato incremento del premio al rischio su tutte le classi di
attività ci costringe per ora a pagare tassi d’interesse troppo
elevati sul nostro debito pubblico.
In tutti e tre i casi, dal punto di vista della politica economica
italiana, la questione torna a essere quella di garantire la
sostenibilità del debito in maniera credibile,
tale cioè da ricondurre la probabilità di default, e il
relativo premio richiesto dai mercati, su valori prossimi a zero. A
seconda del caso in cui ci troviamo, l’accento deve però essere
spostato dal rafforzamento delle condizioni di sostenibilità a quello
della relativa credibilità. Rispetto a ciò, tre sono le variabili in
gioco: il livello iniziale del debito, la nostra crescita reale e il
tasso d’inflazione; da esse si deriva, residualmente, il deficit che
possiamo permetterci nei prossimi anni.
PREVISIONI E PRIORITÀ
Si comprende subito come, in un quadro economico come quello
attuale, la scommessa non produca esiti scontati. Chi è oggi in grado
di formulare una previsione su crescita e inflazione nei prossimi
anni, senza associarvi un ampio margine di incertezza?
Sulla crescita, i timori legati alla crisi internazionale si
sovrappongono a quelli più specifici della nostra realtà domestica.
Già prima dell’aggravarsi della crisi, le stime della crescita
potenziale dell’economia italiana non andavano molto oltre l’1
per cento all’anno in considerazione della perdurante
stagnazione della produttività e della tendenziale decelerazione della
dinamica occupazionale cui andiamo incontro con la transizione
demografica degli anni a venire. Oggi, dopo lo scoppio della crisi, la
quantificazione della crescita potenziale dell’economia italiana deve
essere rivista al ribasso: un trend di crescita vicino allo 0,5 per
cento all’anno non pare peccare di particolare pessimismo.
Dal lato dei prezzi, si aprono opzioni molto diverse,
fra cui anche quella di una fase di prezzi in flessione, come
sostengono quanti trovano elementi di somiglianza fra la crisi attuale
e quella del Giappone degli anni Novanta. Pur non essendo questa
l’ipotesi più probabile, è chiaro che oggi uno scenario di prezzi
leggermente decrescenti non può essere scartato a priori.
Se si considera l’ipotesi di una crescita dell’ordine di pochi decimi
all’anno, e nulla in termini nominali, con il contestuale decremento
dei prezzi, si traggono conseguenze nefaste per le nostre finanze
pubbliche, per la semplice ragione che il rapporto debito/Pil in
queste condizioni continua sempre a crescere, a meno di non azzerare
il livello del deficit, operazione tutt’altro che consigliabile in
fasi di recessione. Ci si ritroverebbe a fronteggiare scenari in cui
gli sviluppi dell’economia reale si ripercuotono sulle condizioni
delle finanze pubbliche sino a renderle non sostenibili.
Si può quindi cominciare almeno a ragionare su ipotesi meno estreme,
assumendo una crescita dei prezzi in linea con il target della
Bce, e ipotizzando che dopo uno sforamento di un paio d’anni
si desideri mantenere il deficit su un valore del 3 per cento.
In questo caso, si può quantificare l’obiettivo “critico” di crescita
del prodotto, al di sotto del quale il rapporto debito/Pil continua a
crescere, in un tasso dell’1,1 per cento. Se invece si vuole imprimere
al rapporto una traiettoria debolmente decrescente, occorre portare la
crescita almeno verso l’1,5 per cento, ma in questo
caso nel lungo periodo il debito si stabilizza appena sotto il 100 per
cento.
Pertanto, una crescita del Pil vicina all’1,5 per cento diventa la
priorità odierna. Si tratta di un valore apparentemente semplice da
raggiungere, ma non affatto scontato alla luce dell’esperienza
italiana degli ultimi anni. In assenza di una strategia di politica
economica in grado di incidere sulla crescita potenziale, nulla ci
garantisce che le forze spontanee del sistema si portino verso tale
valore.
Per restituire solidità agli equilibri finanziari la strada più
plausibile, oltre che auspicabile, pare quella di una azione volta a
innalzare il tasso di crescita del prodotto. Il
legame fra crescita e risanamento dei conti pubblici va del resto al
di là dell’effetto algebrico che rende più agevole la sostenibilità
dei conti se il prodotto aumenta a ritmi più elevati. Conta anche la
sostenibilità sociale: un aumento maggiore di reddito e occupazione
rende accettabili più alti carichi fiscali, e meno necessaria la parte
di spesa sociale che nelle fasi difficili risulta invece essenziale.
Poiché il concetto di crescita cui facciamo riferimento è quello
rilevante per la sostenibilità del debito, e dunque quello che il
sistema è in grado di mantenere nel medio termine, è anche chiaro che
poco conta l’aspetto del passaggio congiunturale che stiamo
attraversando, mentre rileva di più la nostra capacità di “uscire
bene” dalla crisi. Se la crescita non ripartirà, anche gli
equilibri del bilancio pubblico in Italia resteranno fragili,
mantenendo la politica fiscale su un sentiero impervio, e obbligando i
governi a politiche di carattere quasi punitivo nelle fasi basse del
ciclo economico.
(1) G. Vaciago, La prima crisi finanziaria
globale, Il Mulino, 6/2008, p. 1048.
http://www.lavoce.info
Archivio Finanza
|