Milletrecentocinquanta
miliardi di Euro. Non sono un bilancio mai certificato di
un paese del sud del mondo; nemmeno lo stanziamento
previsto per il miglior welfare possibile nel nostro
Paese. E’ solo quanto le borse hanno bruciato la settimana
di contrattazioni appena conclusa, che vede la perdita
secca del 22% del valore dei titoli. Vedremo come
reagiranno oggi i mercati, dopo le misure straordinarie
assunte dalla Ue, ma essere ottimisti sarebbe folle. Una
volta era il venerdì nero, poi divenne il lunedì nero,
adesso pare che solo il sabato e la domenica non lo siano,
dato che le Borse sono chiuse e i titoli non si muovono.
Titoli che hanno una peculiarità: come capitali volatili
si alzano in cielo agitando ricchezza fatta di nulla e
destinata a pochi, come carta straccia ritornano sulla
terra, in un monopoli perverso che li spalma su tutti
sotto forma di recessione. L’economia drogata del turbo
capitalismo, che negli anni ’90 invitava i risparmiatori a
diventare investitori, (solo per avere a disposizione i
capitali freschi con i quali costruire le speculazioni) a
comprare paesi interi a prezzi di saldo e che ora cerca
rifugio nell’intervento delle banche centrali, è finta nei
suoi effetti benefici ma vera nei detriti che trascina con
sé.
Quella che è entrata irrimediabilmente in crisi è una
politica economica figlia degenere di Adam Smith e
nipotina stupida di Milton Friedman. Viene da lontano e se
ne cogliamo solo oggi i suoi effetti è perché quando
questi colpivano il sud del mondo e anche alcuni riflessi
da noi, il pensiero unico imponeva silenzio e fede.
Cominciò alla fine degli anni ’80 la fase ultima della
guerra del capitale contro il lavoro. La
finanziarizzazione dell’economia scoprì i fondi privati, i
capitali speculativi, il saccheggio dei paesi attraverso i
capitali volatili che s’insediavano accompagnati e
benedetti dai diktat del Fondo Monetario Internazionale e
della Banca Mondiale.
Organismi che mentre accettavano - anzi promuovevano - la
crescita delle economie del nord sulla base
dell’indebitamento crescente, intimavano al sud del mondo
rigore assoluto e conti in ordine, con la purga delle
politiche di “aggiustamento strutturale”. Al sud
imponevano la riduzione drastica del debito, la
contrazione massima della spesa sociale, l’abbattimento di
ogni barriera doganale, l’apertura del mercato interno
agli investitori esteri. Ma al nord la musica era diversa:
l’economia interna veniva sussidiata e le barriere
doganali crescevano, ma nonostante ciò gli Usa passavano
dall’essere primo paese creditore a primo paese debitore.
Insomma, gli organismi monetari internazionali
permettevano l’indebitamento crescente del nord perché
tanto questo veniva pagato dal sud. Il debito, che nel sud
significava violare le regole, straordinariamente al nord
diventava la garanzia perché fossero rispettate le stesse.
Le politiche del credito dissennate accompagnavano al nord
l’ideologia neocons che prefigurava un mondo di
proprietari, mentre al sud la stessa creditizia era l’alfa
e l’omega delle economie interne.
Ma per quanto drogata, per quanto folle nelle sue
dinamiche, anche l’economia che scambia il valore reale
con quello teorico, che chiude al lavoro per aprire ai
capitali speculativi, prima o poi presenta il conto. L’effetto
tequila e i coralitos argentini sembrano
oggi, a venti e a dieci anni di distanza, le prove
generali di quanto ci aspetta. Molto si sarebbe dovuto
apprendere dalle crisi finanziarie latinoamericane e del
sudest asiatico, ma il pensiero unico non prevedeva
sguardi indiscreti per analisi discrepanti.
Quella che si è scatenata ora è una crisi sistemica: crisi
energetica, alimentare, finanziaria. E produrrà una crisi
politica, di assetti strutturali, che vedranno gli Stati
Uniti non più come il paese-guida dell’Occidente, ma il
problema principale dell’Occidente. Un impero piovra che
impedisce proprio quello sviluppo della globalizzazione
che i teorici del nuovo ordine mondiale disegnavano come
l’era della ricchezza per tutti e che, nel suo procedere a
cappa e spada per difendere il suo ruolo di gendarme
unipolare, crea il suo stesso dissesto, la crisi del suo
stesso ruolo. Con un deficit di bilancio federale che
prevede ammontare a 407 miliardi di dollari nel prossimo
anno e un debito pubblico che ha superato i diecimila
miliardi di dollari, cioé il 72% del Pil Usa.
Proviamo a leggere alcuni dati e alcune cifre che più di
altre simbolizzano la crisi statunitense, che
l'amministrazione Bush ha drammaticamente accentuato del
70%. . Ubriacati dagli ultras neocons e ingozzati di
monetarismo, solo nel periodo gennaio-giugno del 2008, gli
Usa hanno perduto 760.000 posti di lavoro, che entrano a
far parte della poco invidiabile schiera dei disoccupati
Usa, circa 9,5 milioni. Ovviamente, i nuovi disoccupati
andranno ad incrementare anche il numero degli
statunitensi senza assistenza sanitaria, circa 45 milioni.
I settecento miliardi di dollari del piano Paulson per
affrontare la crisi di borsa sembrano invece quisquilie al
confronto dei 612 miliardi previsti per le spese della
Difesa nell'anno fiscale 2009. Settanta di questi verranno
dedicati ad Afghanistan e Irak. A questi vanno aggiunti
altri 10 miliardi di dollari per le armi nucleari (che
sono iscritte al bilancio del ministero dell'Energia) e
altri 50 per l'intelligence militare. E' la metà delle
spese militari di tutto il pianeta.
Sono le cifre di un paese impazzito, di un sistema che si
rivolta contro se stesso. Basti pensare che nonostante i
7.700 miliardi di dollari investiti nel Plan Colombia con
la scusa del contrasto al traffico di droga, solo nei
primi sei mesi del 2008 sono 516 i miliardi di dollari
utilizzati per l’acquisto di droghe illecite nel mercato
interno, ai quali andrebbero aggiunti quelli per le
sostanze lecite (alcol e sigarette) pari a 68 milioni di
dollari nei primi sei mesi di quest’anno. Gli americani
che si nutrono grazie ai food stamps, i buoni
statali per il cibo, sono ormai 29 milioni. E se una volta
il complesso militar industriale era comunque il
principale volano dell’economia statunitense, le guerre
intraprese e mai vinte cominciano a mettere in dubbio il
valore sistemico del meccanismo.
La guerra in Irak è costata fino ad ora 4120 soldati morti
e 600.000 irakeni, ma queste sono cifre che non destano
preoccupazione ai contabili della Casa Bianca e del
Pentagono. Il costo del mantenimento della follia
imperiale, semmai potrebbe fargli maggior effetto: 800
miliardi di dollari, circa dodici al mese, cinquemila
dollari al secondo. Venti di questi sono transitati
direttamente dalla cassa del Pentagono a quelle della KBR,
una divisione della Halliburton del Vice Presidente Dick
Cheney; cibo, benzina, alloggi e altri dettagli
rappresentano le forniture per le 75 basi militari Usa in
Irak. Coerenti, in fondo, con il costo per il mantenimento
annuale di un soldato nel teatro di guerra irakeno:
390.000 dollari. E sono circa 155.00 i soldati occidentali
in Irak, oltre ai 180 mila mercenari.
Altri computi riguardano i giornalisti assassinati in Irak
dalle forze armate statunitensi (14) e gli sfollati
irakeni (2.260.000). Nel paese l’elettricità per le truppe
è garantita 24 ore su 24, mentre per gli irakeni è di una
o massimo due ore al giorno. Ma, tutto sommato, è una
questione di coerenza si potrebbe dire, visto che gli Usa
consumano da soli il 24% dell’energia mondiale; tanto per
fare un paragone irriverente, basta sapere che un
citatdino statunitense consuma in media l’energia di 370
cittadini etiopi. Non accendono però le luci per studiare
di sera, visto che uno ogni venti adulti statunitensi è
analfabeta. Semmai per mangiare, visto che se
1.386.024.590 persone non hanno accesso all’acqua e
888.732 non sono adeguatamente alimentate, e ogni giorno
muoiono per fame 21.700 persone, a fare da contraltare ci
sono gli obesi: degli oltre un miliardo e 150 milioni, il
78% sono statunitensi.
Affinché il cortile di casa non sia troppo intasato, 60
milioni di dollari è la cifra che l’USAID ha investito in
Venezuela per destabilizzare il progetto bolivariano di
Hugo Chavez; 120 milioni in Bolivia per destabilizzare Evo
Morales e 75 milioni in Nicaragua contro Daniel Ortega. Il
tentativo è quello di riprendersi il controllo del
subcontinente e riprovare a saccheggiarlo per finanziare
in parte il debito, ma non ci riusciranno. Alla vigilia
delle elezioni, il confronto tra Obama e McCain appare
ora, più che uno scontro politico, la lotta tra il futuro
e il passato. Con il primo che dovrà essere ripensato e il
secondo velocemente abbandonato. L'impero ormai, sarà
sempre più solo un isterismo inutile.
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