Negli ultimi venti anni abbiamo assistito a una bolla speculativa del
credito. Il capitale bancario era adeguato in quel roseo scenario, ma non
per fronteggiare un serio shock. Quando l'euforia è svanita, i mercati hanno
cominciato a percepire un consistente rischio non solo di illiquidità ma
anche di insolvenza in tutte le principali banche. Ora fronteggiamo un
faticoso processo di riduzione del grado di indebitamento complessivo. Che
può diminuire in modo significativo l'offerta di credito e amplificare le
ripercussioni della crisi finanziaria sul ciclo economico mondiale.
Una delle principali lezioni della crisi finanziaria
è che il capitale delle banche è cresciuto negli ultimi venti anni in
misura meno che proporzionale alla straordinaria crescita del credito
complessivo e dei rischi relativi. Fino all’agosto dello scorso anno,
ci eravamo cullati nell’idea che i rischi fossero
stati trasferiti al di fuori del sistema bancario e distribuiti a
un’ampia cerchia di investitori. I 500 miliardi di dollari di perdite
bancarie già emerse (e il conto non è definitivo) provano che si
trattava di pura illusione: molti rischi gravavano ancora sul bilancio
delle banche; altri sono stati richiamati, anche al di fuori di
obblighi legali, per evitare guai maggiori dal punto di vista
reputazionale; altri erano semplicemente nascosti sotto il tappeto, in
quello che la Banca dei regolamenti internazionali ha severamente
giudicato come “il sistema bancario ombra”, un modo fin troppo gentile
per dire che i bilanci bancari non dicevano la verità. LA BOLLA DEL
CREDITO
Negli ultimi anni le principali autorità internazionali hanno
ripetutamente indicato la possibilità di una grave crisi finanziaria,
ma continuavano a sottolineare che il sistema bancario
non era mai stato così robusto, grazie alla vigilanza prudenziale e in
particolare alle regole di adeguatezza del capitale realizzate con i
principi di Basilea a partire dalla seconda parte degli anni Ottanta.
In più, quei principi stavano per essere rafforzati grazie
all’imminente attuazione di Basilea 2.
La triste ma semplice verità è che negli ultimi venti anni (e in
particolare nell’ultimo decennio) abbiamo assistito a una bolla
speculativa del credito, con i connessi ingredienti di euforia, di
profitti speculativi e di valutazioni troppo ottimistiche. Il capitale
bancario era adeguato in quel roseo scenario, ma non per fronteggiare
un serio shock. Non appena l’euforia è svanita, i mercati hanno
cominciato a percepire un consistente rischio non solo di illiquidità
ma anche di insolvenza (dunque di inadeguatezza del capitale) in tutte
le principali banche. Con varia intensità, questo grave fenomeno dura
da più di un anno, nonostante le massicce iniezioni di fondi attuate
dalle banche centrali con operazioni assolutamente straordinarie per
tipologia, volumi e durata. E nonostante gli interventi di salvataggio
come quelli realizzati per Northern Rock (in questo caso addirittura
una nazionalizzazione), Bear Stearns, e gli intermediari semi-privati
del settore ipotecario americano (Fannie Mae e Freddie Mac).
BANCHE E ATTIVITÀ A RISCHIO
Per misurare la crescita del credito a livello globale nel lungo
periodo, possiamo usare come proxy i dati degli Stati Uniti, data la
difficoltà di ricostruire una serie. Il grafico seguente (1)
dimostra che le attività totali delle banche sono
cresciute molto più velocemente del prodotto lordo, trascinando i
profitti bancari a livelli considerevolmente superiori alla media
degli ultimi venticinque anni.
Figura 1 Banche Usa: totale attivo e profitti in
percentuale del Pil
Anche il capitale delle banche, il presidio
fondamentale rispetto ai rischi, è cresciuto, ma seguendo le regole
estremamente semplici della regolamentazione di Basilea 1,
entrata in vigore alla fine degli anni Ottanta, e non la sostanza
della crescita dell’intermediazione bancaria e delle sue
trasformazioni qualitative. L’effetto netto è stato che il capitale è
cresciuto sì, ma solo proporzionalmente alle cosiddette “attività
ponderate per il rischio” (il perno della regolamentazione di Basilea
1). Per di più, una parte della crescita del capitale era collegata ad
attività immateriali (gli avviamenti pagati nei processi di
acquisizione) che dipendono ovviamente dal valore dei prezzi
di borsa e che quindi oggi dovranno essere ridimensionati. In
sintesi: il capitale non è cresciuto abbastanza rispetto ai rischi
effettivi e contiene una componente immateriale che dovrà essere
ridimensionata.
Non sorprende che una recente ricerca indichi che il peso delle
attività a rischio rispetto al capitale sia oggi
incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi crisi precedente,
come dimostra il grafico che segue, che indica il rapporto fra
attività a rischio delle banche americane e il capitale tangibile,
cioè al netto delle attività immateriali. (2)
Figura 2 Esposizione delle banche americane alle
attività a rischio, in percentuale del capitale tangibile
Il punto fondamentale è che i dati di sistema illustrano la realtà
fino a un certo punto. Quello che occorre mettere in evidenza è che
molte banche hanno attuato un vero e proprio “arbitraggio
regolamentare” consentendo al rapporto fra attività ponderate per il
rischio e attività totali di ridursi in modo significativo. Poiché il
complemento a cento del rapporto in questione è rappresentato da
attività fruttifere che non possono essere considerate esenti da alcun
rischio, è evidente che si è aperto una opportunità di
profitti esenti da costi di capitale che alcune banche hanno
sfruttato in modo estensivo, come dimostra il grafico seguente
riferito alle banche europee. Figura 3 Banche
europee: rapporto fra attività ponderate per il rischio e attività
totali.
Clicca qui per vedere la Figura
Le banche che presentano i rapporti più bassi, fra cui compaiono
con inquietante frequenza istituti svizzeri, inglesi, francesi e
tedeschi, sono quelle che hanno spinto al massimo questo gioco e
quindi hanno un peso del capitale rispetto alle attività totali più
basso, spesso in misura significativa, rispetto alle altre. In chiaro
sono indicate le banche italiane, che come si vede
godono di una situazione nettamente migliore.
Questi dati confermano i risultati della ricerca economica stimolata
dalla crisi (3), che ha dimostrato che il grado di
leverage delle banche (cioè il rapporto fra totale dell’attivo e
capitale) è cresciuto a un ritmo elevato negli ultimi venti anni e che
esso è tendenzialmente prociclico, poiché risulta
amplificato dall’interazione fra le scelte di indebitamento di
famiglie e imprese (nell’ultimo ciclo dalle prime, per effetto del
boom edilizio) e le scelte del sistema bancario sul livello desiderato
di capitale. (4) I due motori del boom hanno di colpo
rovesciato la direzione della spinta, come accade ai reattori degli
aerei.
Stiamo perciò fronteggiando un faticoso e doloroso processo di
aggiustamento di “deleveraging” del settore bancario internazionale,
cioè di riduzione del grado di indebitamento complessivo o, se si
preferisce, del volume di rischi per unità di capitale. Questo
processo può diminuire in modo significativo l’offerta di
credito da parte della banche (determinando cioè l’intensità
del credit crunch) e amplificare le ripercussioni della crisi
finanziaria sul ciclo economico mondiale.
LA CRISI FINANZIARIA TRA FALLIMENTO DEL MERCATO E FALLIMENTO DELLA
REGOLAMENTAZIONE
Via via che il conto delle perdite si fa sempre più pesante, si
allunga l’elenco delle cose che non hanno funzionato nel sistema
bancario internazionale. L’ultimo rapporto della Bce (5)
mette sotto accusa il sistema di valutazione da parte
delle banche del valore dei titoli complessi, l’efficienza del mercato
dei derivati nel trasferire i rischi, la trasparenza dei bilanci
bancari, l’eccessivo ricorso ai mercati all’ingrosso nella politica di
raccolta delle banche.
Se i problemi sono così vasti e penetranti, si capisce perché è stato
detto che “la crisi finanziaria ha distrutto il mito che mercati
finanziari non regolamentati possano allocare sempre in modo
efficiente il risparmio agli investimenti più redditizi”(6).
Ma se è così, occorre anche interrogarsi sull’efficienza complessiva
del sistema di regolamentazione bancaria degli ultimi
venti anni, imperniato sugli accordi che hanno portato al regime di
Basilea-1.
E’ lecito chiedersi dove è finita la “sana e prudente gestione” che è
scolpita a caratteri di bronzo nelle leggi bancarie di tutti i paesi e
qual è il giudizio da dare sulla vigilanza prudenziale (e mai ironia
involontaria fu più bruciante) che ha preteso di controllare la
finanza internazionale?
LIMITI DI BASILEA-1 E BASILEA-2
Il problema fondamentale è stato quello di consentire alle banche
(meglio: ad un gruppo di grandi banche, spesso quelle che inseguivano
il difficile trapasso dalla condizione di “campione nazionale” a
quella di global player) di aumentare a dismisura i rischi
complessivamente sopportati rispetto al capitale, che è il presidio
fondamentale per sopportare shock di carattere micro
o sistemico.
Basilea-1 ha avuto grandissimi meriti, ma aveva due difetti
fondamentali: quello di essere (e questo era inevitabile in una prima
applicazione) molto semplificato e quindi basato sul principio
one-size-fits-all e quello di essere tutto orientato al rischio
di credito, considerando in modo residuale altri rischi fondamentali
come quello di mercato, quello di liquidità e non prendendo in
considerazione il rischio operativo. Entrambi questi difetti di
gioventù avrebbero dovuto e potuto essere superati con Basilea-2.
Ma qui la lobby dei soggetti regolati si è dimostrata
più forte dei regolatori (o, se si preferisce, ha “catturato” alcuni
regolatori nazionali che si sono fatti portavoce di quegli interessi
nelle sedi internazionali). In primo luogo, si è infatti affermato il
principio che il mercato è più efficiente delle autorità di
regolamentazione a determinare il capitale bancario necessario ad
assicurare la stabilità. O, il che è lo stesso, si è affermato il
principio che solo il mercato e in particolare le banche, nella loro
infinita sapienza operativa, sono in grado di valutare i rischi e
quindi il capitale necessario.
Il secondo problema di Basilea-2 è che l’estenuante e lunghissima
trattativa internazionale che ha portato al nuovo Accordo (dieci anni
dal primo documento) era mossa dal desiderio di non imporre
alle banche nuovi oneri in termini di risorse di capitale, ma anzi di
consentire alle più “brave” di risparmiarne.
UNA CRISI PEGGIORE DELLE ASPETTATIVE
Come se non bastasse, molte autorità di vigilanza
si sono dimostrate fin stroppo compiacenti verso i soggetti regolati,
consentendo loro di assumere rischi senza neppure la protezione del
credito di ultima istanza (è il caso di Bear Stearns) oppure di avere
attività totali pari a 58 volte il capitale (è il caso di Northern
Rock).
Ma è fin troppo facile accusare oggi la Fsa di non aver vigilato
abbastanza, quando fino a qualche mese fa gli inglesi vantavano il
“tocco leggero” della loro regolamentazione come elemento fondamentale
della supremazia della piazza finanziaria londinese. Scatenando, fra
l’altro, invidia e sentimenti di emulazione sull’altra sponda
dell’Atlantico.
Nel Wyoming, terra di duri cowboys, le autorità internazionali si sono
incontrate a fine agosto e hanno riconosciuto da un lato che la crisi
risulta più grave di diagnosi in diagnosi e hanno
convenuto sulla necessità di apportare modifiche non marginali alla
regolamentazione prudenziale sul capitale (7).
Analogamente, si impone una maggiore collaborazione
internazionale e soprattutto una maggiore uniformità dei
regolatori quanto a contenuti e stili della vigilanza prudenziale. Già
il rapporto del Financial Stability Forum pubblicato ad aprile aveva
formulato ben 57 raccomandazioni, molte delle quali rivolte agli
operatori di mercato, ma altre che richiedono una risposta dei
regolatori, soprattutto in termini di capacità di elaborare soluzioni
condivise e omogenee.
Non sarà facile tradurre in termini operativi queste buone intenzioni.
Per di più è lecito sospettare che quando la paura sarà passata, la
severità dei regolatori e la loro disponibilità alla cooperazione si
possa attenuare per far posto a un altra versione, magari solo
edulcorata, di fenomeni di “cattura” da parte dei soggetti vigilati.
L’AUMENTO DEI RISCHI
Rimane comunque il problema di cosa fare nell’immediato perché da
un anno a questa parte i tassi di interesse del
mercato interbancario e i premi al rischio incorporati nei credt
default swap (strumenti che rappresentano di fatto un’assicurazione
contro il rischio di insolvenza di una banca) segnalano condizioni di
anomalia mai viste prima. Il tasso che le banche
pagano sul mercato interbancario (e che incorpora in gran parte un
rischio di credito) è di circa 70 punti base superiore a quello di
luglio 2007 (e si traduce in maggiori costi di raccolta che alla fine
qualcuno paga). Il rischio di assicurazione è esploso
rispetto a un anno fa, soprattutto per le banche americane e può
essere tradotto in soldoni dicendo che il mercato stima che ci sia una
probabilità su quaranta che una banca fallisca. Un’enormità rispetto
alla visione tradizionale secondo cui le banche sono inaffondabili.
Quando poi, come è accaduto nei giorni scorsi, si annuncia
pubblicamente che accadrà un altro caso come Bear Stearns, il gioco a
identificare la prossima vittima rischia di avere effetti devastanti.
Ma davanti a situazioni di emergenza, non possiamo aspettare che entri
funzione un nuovo modello di vigilanza. Né possiamo
passare da un salvataggio (magari con nazionalizzazione) a un altro.
Se il mercato, oggi finalmente percepisce che i rischi bancari sono
eccessivi rispetto al capitale, occorre anche, e soprattutto
intervenire su quest’ultimo, cioè favorendo in tutti i modi i processi
di ricapitalizzazione delle banche, ovviamente
cominciando da quelle che hanno spinto all’estremo i processi di
leverage.
Se le prestigiose autorità internazionali potessero essere trattate
come Bush senior ai tempi della campagna presidenziale degli Stati
Uniti del 1992, il motto potrebbe essere. “It’s the capital, stupid”.
(1)Merrill Lynch (Stuart Graham), Remaining
cautious for 2008: Increased risks to business models, 20
December 2007
(2)Morgan Stanley DownUnder Daily (Gerard Minack),
Not Banking On It, June 24, 2008
(3)Tobias Adrian e Hyun Song Shin, Liquidity,
Monetary Policy, and Financial Cycles, in “Federal Reserve Bank
of New York, Current Issues in Economics and Finance”,
January-February 2008.
(4)Marco Pagano, The Subprime Lending Crisis:
Lessons for Policy and Regulation, in “Unicredit Group, Finance
Monitor”, June 2008.
(5)European Central Bank. Financial Stability
Review, June 2008, p. 12 e segg.
(6)Paul De Grauwe, Cherished myths fall victim to
economic reality, Financial Times, 22 July 2008.
(7)Ben Bernanke,, Speech at the Federal Reserve
Bank of Kansas City's Annual Economic Symposium, Jackson Hole,
Wyoming, August 22, 2008
http://www.lavoce.info
23/09/2008 Archivio Crac Lehman Brother, il terrore dei mutui, i risparmi degli investitori
Archivio Finanza
|