Niente di nuovo sotto il sole con il pasticcio dei subprime: le crisi
economiche seguono lo stesso modello nei diversi paesi e attraverso i secoli.
Riduzioni nel valore delle attività, comprese quelle immobiliari, sono
indicatori comuni dell'insorgenza di una crisi bancaria. Le conseguenze sono
pesanti: una caduta del Pil ampia e prolungata. Non c'è alcun dubbio della
necessità di correre ai ripari. Ma una reazione decisa sull'onda dell'emozione
può rivelarsi eccessiva e inefficiente.
“Non c'è niente di nuovo eccetto ciò che si è dimenticato” M.lle Rose Bertin.
La stampa finanziaria ha per lo più trattato il pasticcio dei mutui
subprime americani del 2007-2008 come una crisi di nuovo tipo. Èun
punto di vista che legge le ripercussioni internazionali della crisi iniziata
degli Stati Uniti come una prova del fatto che la globalizzazione dei portafogli
finanziari ha aperto nuovi canali di contagio. E c'è oggi una notevole
confusione anche nei circoli accademici e politici: le turbolenze dell'economia
globale sono dovute a effetti di contagio oppure a fondamentali economici
condivisi (comuni)?
LA CRISI FINANZIARIA: LO SCENARIO
In diversi paesi e attraverso i secoli, le crisi economiche di tutti i tipi
seguono un modello simile. Appare una innovazione: può
trattarsi di un nuovo strumento di scientifico o industriale, come la campana
subacquea o il motore a vapore o la radio. Oppure si tratta di un nuovo
strumento di ingegneria finanziaria, come le società per azioni, i titoli
spazzatura o le emissioni di debito collateralizzato. All'inizio, gli
investitori possono mostrarsi prudenti, ma poi vedono che dai
nuovi strumenti si possono ricavare straordinari ritorni e si precipitano a
investire. Gli intermediari finanziari – banche e società di investimento –
forzano i loro bilanci per non rimanere fuori dell'affare. L'impennata del
valore delle attività continua e quella generazione di attori del mercato
finanziario ne trae la conseguenza che le regole sono cambiate: il rischio è
stato domato e l'investimento è sempre redditizio. Troppo spesso, i politici
sostengono che il boom del valore delle attività è un voto di approvazione al
loro governo, e che “questa volta è diverso”. Per quel che ne so, raramente
dichiarano che forse il mondo non è cambiato e che le vecchie regole di
valutazione valgono ancora.
Ma le vecchie regole valgono ancora. La crescita di valore
delle attività si ferma, qualche volta per semplice esaurimento, altre a causa
di uno shock nell'economia. Appare chiara la debolezza dei bilanci di chi ha
giustificato un forte indebitamento con l'aspettativa di enormi capital gain:
molte società finanziarie ammettono le perdite, alcune alla fine falliscono.
Tutte in ogni caso ripiegano su se stesse, restringendo la disponibilità del
credito nel tentativo di riequilibrare i bilanci. Con minore ricchezza e più
difficoltà a ottenere prestiti, generalmente l'attività economica
si contrae. Solo dopo che le perdite sono state eliminate dal sistema
finanziario spesso con l'aiuto di una politica monetaria e fiscale più
accomodante seppur tardiva, l'economia riparte.
IL RUOLO DEL MERCATO IMMOBILIARE
Il triste spettacolo si ripete nei vari tipi di crisi, ma per quel che
riguarda il presente più interessante è ciò che accade dopo una crisi bancaria.
Un un mio recente lavoro con Kenneth Rogoff documenta diciotto episodi di questo
tipo nelle economie industriali negli ultimi trenta anni. (1)
Riduzioni nel valore delle attività, immobiliari e di capitale finanziario
comprese, come quella sperimentata dagli Stati Uniti nell'ultimo anno, sono
indicatori comuni dell'insorgenza di una crisi bancaria. Nelle
Big Five, le cinque crisi peggiori, il valore delle case è sceso in media di
circa il 25 per cento dal picco massimo.
Figura 1 Valore reale degli immobili e crisi bancarie
Fonte: Reinhard e Rogoff (2008) e altre lì citate
LE CONSEGUENZE DELLE CRISI
Per l'attuale situazione degli Stati Uniti, la lezione che se ne può
trarre è che il declino della produzione dopo una crisi bancaria
è ampio e protratto nel tempo: la caduta media della crescita del prodotto
(reale pro-capite) è superiore al 2 per cento, e per il ritorno al trend
normale di crescita servono almeno due anni. Nelle cinque crisi peggiori, il
calo dal punto massimo al minimo nella crescita annua del prodotto è
superiore al 5 per cento e la crescita è rimasta ben al di sotto del livello
pre-crisi per almeno tre anni.
Figura 2: Crescita del Pil reale pro-capite e crisi bancarie
Fonte: Reinhard e Rogoff (2008) e altre lì citate
CONTAGIO O CONFUSIONE?
Effetti di diffusione rapida non sono un fenomeno nuovo.
Il panico che nel 1907 partì dagli Stati Uniti e si diffuse velocemente in
altre economie avanzate, e in particolare in Danimarca, Francia, Italia,
Giappone e Svezia serve come modello di paragone storico per gli attuali
contagi di crisi finanziarie. Come accade oggi, nel 1907 i mercati emergenti
furono risparmiati dalla crisi: l'unica vittima in quel caso fu il Messico.
Non c'è dubbio che la crisi americana si sia diffusa in altri mercati. Due
grandi economie avanzate, in particolare, il Giappone e la
Germania, sono state indicate dalla stampa come
particolarmente toccate dalla crisi. E non si può negare che le istituzioni
finanziarie giapponesi e tedesche abbiano cercato importanti ritorni nel
mercato subprime americano, forse perché le opportunità di profitto sul
mercato immobiliare interno erano limitate nel migliore dei casi e
inesistenti nel peggiore (figura 3). Ed è ormai evidente che le istituzioni
finanziarie dei due paesi avevano una grave esposizione sul mercato dei
subprime. Si tratta di un classico canale di trasmissione o contagio
attraverso il quale la crisi di un paese si diffonde al di là dei confini
nazionali. Tuttavia, nella situazione odierna, questa è solo una parte della
storia. Se altri paesi sperimentano difficoltà finanziarie
contemporaneamente agli Stati Uniti, lo si deve al fatto che molte
caratteristiche della fase preparatoria della crisi dei subprime Usa erano
presenti anche in molte altre economie avanzate. In particolare, in molti
paesi europei, ma anche altrove, in Nuova Zelanda per esempio, si è
sviluppata una bolla immobiliare di origine interna (figura
3). Ciò di per sé rende questi paesi vulnerabili alle normali pericolose
conseguenze di un crollo del mercato, indipendentemente da ciò che accade
negli Stati Uniti. Né si può attribuirne la responsabilità al fiasco dei
subprime americani o a un contagio: c'era già la necessità di correzioni.
Figura 3 variazione percentuale nei prezzi reali delle case
2002-2006
Fonte Shiller e Bank of International Settlements
VIGILANZA DA REPUBBLICA DELLE BANANE
Mentre nel 1994-95 in Venezuela infuriava la peggiore
crisi bancaria (stime prudenti indicano i costi dell'uscita dalla crisi a
circa il 18 per cento del Pil), nessuno nel paese sembrava sapere di chi
fosse la responsabilità della vigilanza sulle istituzioni finanziarie. Come
spesso accade nella maggior parte delle crisi bancarie, le regole relative
al prestito erano divenute troppo permissive, troppi erano i prestiti
incrociati e assai diffusa era la semplice corruzione vecchio stile. La
banca centrale accusava la principale autorità di vigilanza bancaria (Sudeban),
che a sua volta accusava il fondo di garanzia sui depositi (Fogade) e tutti
accusavano la banca centrale.
Al tempo della crisi, l'opinione comune era che un tale fallimento della
supervisione bancaria potesse accadere soltanto in un mercato emergente e
che le economie avanzate avessero già superato una simile confusione. Ora
sappiamo che non è così.
Innanzitutto, negli Stati Uniti parte della responsabilità di vigilanza è
demandata ai singoli stati, il che equivale a dire che
cinquanta autorità di mercati emergenti erano in parte responsabili della
sorveglianza sui prestiti immobiliari. I controllori non hanno messo in
guardia dai rischi gli operatori quando offrivano a potenziali mutuatari
mutui insostenibili. E sono stati acquiescenti quando, attraverso strutture
finanziarie complicate, i rischi sono stati espunti dai bilanci, anche se di
fatto non sono stati trattati come tali dalle strutture dirigenziali delle
società ai primi segnali di tensione. E dopo lo scoppio della crisi hanno
indicato altri come responsabili dell'accaduto.
Nel settore privato, spesso gli intermediari si sono limitati a chiedere una
firma come garanzia per la restituzione del prestito. Un atto di
fede tanto più facile perché i compensi derivavano dalla
concessione dei prestiti e non dal fatto che poi venissero ripagati. E i
sottoscrittori accettavano tutta quella materia prima di mutui e in qualche
modo si convincevano che la legge dei grandi numeri avrebbe reso il tutto
migliore della somma delle singole parti, anche se molte di quelle parti
richiedevano una crescita a due cifre dei prezzi delle case per avere un
senso economico. Le agenzie di rating del credito, incoraggiate dalla
struttura stessa dei loro compensi, hanno prestato orecchio alle
assicurazioni dei sottoscrittori sulla forza della diversificazione dei
rischi e sulla loro capacità di previsione nonostante i precedenti fossero
limitati. E gli investitori finali hanno sostituito il
giudizio delle agenzie di rating alla dovuta due diligence, forse favoriti
da norme di regolamentazione e di contabilità che a quei giudizi assegnano
un significato speciale.
Non c'è alcun dubbio della necessità di un cambiamento, sia
nel settore pubblico sia in quello privato. Il mio timore è però che come in
altri episodi precedenti, la reazione iniziale sia eccessiva e inefficiente.
Le istituzioni finanziarie già restringono i termini e le regole per il
prestito a ritmi velocissimi. Le agenzie di rating, seguendo le loro
abitudini pro-cicliche, reagiranno in modo eccessivo, anche nel tentativo di
distrarre l'attenzione del pubblico dal lassismo degli ultimi anni,
introducendo ora regole rigide. E gli ispettori bancari interpreteranno con
pignoleria le regole, rafforzando la tendenza degli operatori a restringere
la disponibilità del credito.
Intanto, anche i politici hanno già rivolto la loro attenzione all'industria
finanziaria. Se la regolamentazione delle istituzioni finanziarie deve
essere rivista, ci sono argomenti convincenti per tagliare la moltitudine di
controllori degli istituti di deposito e delle compagnie di assicurazione e
per ristrutturare la vigilanza sulle agenzie di rating. Ma è probabile che
il risultato di un dibattito affrettato, sull'onda dell'emozione, sia un
eccesso di legislazione invece di un corretto indirizzo politico. È molto
meglio un lavoro fatto bene, che un lavoro fatto velocemente.
(1)Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff (2008), “Is The
2007 U.S. Subprime Crisis So Different? An International Historical
Comparison”, forthcoming in American Economic Review, maggio.
* Il testo in lingua originale è pubblicato su
Vox.
http://www.lavoce.info
23/09/2008 Archivio Crac Lehman Brother, il terrore dei mutui, i risparmi degli investitori
Archivio Finanza
|