Dai drammatici
giorni del dissesto Parmalat l’attenzione si è concentrata
soprattutto sui temi della tutela dei risparmiatori e del rilancio
produttivo del gruppo. È bene però ricordare che il dissesto – uno dei
più gravi della storia economica italiana che pure è dolorosamente ricca
di fatti criminosi – ha cause finanziarie profonde che mettono in
evidenza alcuni vizi strutturali del capitalismo privato italiano
e di molte banche, compresa qualcuna di grande tradizione
internazionale e altrettanta disinvoltura nei confronti delle operazioni
più spericolate.
Nel terzo anniversario del dissesto è dunque utile compiere
un’operazione didascalica per ricordare le cifre fondamentali del
clamoroso crack. È troppo semplice attribuire tutto alle frodi:
queste sono state lo strumento per coprire una situazione sempre più
squilibrata e ovviamente hanno dovuto diventare sempre più grandi e
sempre più sofisticate. Come ogni bugia chiama bugie più grosse, così la
frode finanziaria trascina l’impresa in un vortice da cui è impossibile
sfuggire: un incubo analogo a quello descritto da Edgar Allan Poe nel
racconto "Una discesa nel Maelstrom".
Il mio contributo ha dunque solo finalità didascaliche e si rivolge a
quanti, in primo luogo studenti, intendono documentarsi e riflettere su
questo importante fatto. I dati sono tratti soprattutto dalla
relazione del commissario straordinario, Enrico
Bondi, e da quella del consulente (Stefania Chiaruttini, consulente
tecnico d’ufficio, o Ctu) di uno dei pubblici ministeri al lavoro sul
caso. Il Maelstrom di Parmalat può essere riassunto in sette passaggi
ciascuno dei quali verrà documentato con le cifre fondamentali.
1) Parmalat è sempre stata un’azienda
finanziariamente fragile, vittima di una contraddizione insanabile in
capo al suo azionista di controllo, Calisto Tanzi, il quale concepiva
piani di crescita sempre più ambiziosi, ma nello stesso tempo era
totalmente refrattario all’idea di immettere capitali propri
nell’azienda.
Dal negozio di villaggio a una multinazionale
presente in 139 paesi: queste le cifre della crescita di Parmalat dal
1962 (circa 100mila euro) al 2003 (oltre 7,5 miliardi), sintetizzate dal
grafico che segue. Il che significa tassi di crescita annui del 44 per
cento nel primo ventennio e del 21 nel secondo.

La crescita del fatturato è determinata soprattutto
dall’estensione della base produttiva realizzata con acquisizioni in
tutti i continenti. Nel complesso, dal 1990 al 2003, il gruppo
effettuerà investimenti per 5,4 miliardi di euro, di cui 4 per
acquisizioni.
In una espansione così vistosa non poteva mancare qualche errore di
carattere tattico e strategico. Sul primo versante, alcune
acquisizioni in paesi stranieri si riveleranno prive di prospettive
commerciali adeguate, ma sono errori tutto sommato marginali,
inevitabili in una dinamica così intensa (per di più diretta da una sola
persona). Il commissario straordinario Enrico
Bondi, nella sua opera di risanamento, procederà ad alcuni tagli del
core business, ma si tratta di potature di una pianta
complessivamente sana. Più gravi sono gli errori strategici, che
riflettono vizi antichi degli industriali italiani, sempre pronti a
trovare sbocchi in settori che assicurano consenso e appoggi politici
(Tv, calcio) ma divorano risorse. Anche questo però non spiega la
fragilità finanziaria di fondo e tanto meno le frodi.
Lo squilibrio strutturale è dimostrato dalla figura seguente, che indica
gli investimenti dal 1990 al 2003 e (nei riquadri) i valori dell’indebitamento
complessivo alle varie date.

Il grafico dimostra come la febbre delle acquisizioni abbia fatto
esplodere il fabbisogno finanziario (bisogna naturalmente tener conto
anche delle esigenze di capitale circolante per soddisfare le esigenze
di produzione e vendita su un impero produttivo sempre più vasto) e di
conseguenza l’indebitamento. Dal 1990 al 2003, i debiti crescono del 42
per cento all’anno. Il motivo è uno solo: tutta questa crescita è basata
solo sui debiti. Niente male per un’azienda che alla fine degli
anni Ottanta aveva attraversato la sua prima crisi finanziaria. E questo
ci porta alla seconda sequenza del nostro film dell’orrore.
2) La quotazione in Borsa viene utilizzata solo per
risolvere i problemi finanziari dell’azionista di controllo.
L’eccesso di indebitamento accumulato nei primi venti
anni porta a un piano di risanamento curato dalle banche (e favorito dal
governo di allora e in particolare da Ciriaco De Mita, allora potente
segretario della Dc) e alla quotazione in Borsa.
Leggiamo quello che scrive un autorevole giornalista finanziario sulla
situazione di Tanzi negli anni Ottanta. "La lunga cavalcata
dell’ambizioso ragioniere di Collecchio sembrava già molto vicina al
capolinea. Gia allora, venti anni fa, la nave Parmalat faticava a tenere
il mare. Stava a galla grazie all’appoggio garantito dalle banche. Ma a
quel tempo, molto più di oggi, il sistema creditizio dipendeva
quasi per intero dai partiti. Ovvero in massima parte dalla Democrazia
cristiana, che a sua volta assegnava le poltrone sulla base degli
equilibri fra le varie correnti interne. Tanzi, che era di casa nei
palazzi democristiani, riuscì così a ottenere il sostegno finanziario di
cui aveva assoluto bisogno. Per sopravvivere l’imprenditore emiliano si
fece stringere al collo un guinzaglio da cui non riuscì mai più a
liberarsi". (1)
Nel 1989 un gruppo di banche (tutte vicine alla Dc) organizza il
pool per il prestito che porta nuove risorse al gruppo in difficoltà e
pone le premesse per lo sbarco in Borsa, che però viene realizzato con
tre marchingegni finanziari:
i) la quotazione viene realizzata conferendo
Parmalat a una società finanziaria già quotata, praticamente una
scatola vuota. In questo modo si evita il collocamento pubblico e
la redazione di un prospetto informativo per risparmiatori;
ii) la conseguenza è che la società quotata (subito ridenominata
Parmalat Finanziaria) ha come unico asset una società operativa,
dunque è la più classica delle "scatole cinesi".
iii) La quotazione prevede un aumento di capitale per 600
miliardi, ma nelle casse societarie ne arrivano circa 300
miliardi, perché la società operativa viene ceduta da Tanzi a un
prezzo che gli consente esattamente di intascare con la mano
sinistra i mezzi che fornisce all’impresa con la mano destra in
occasione dell’aumento di capitale.
Con questa tripla capriola, il gioco è fatto. La
crisi finanziaria è superata (almeno in apparenza) e Parmalat
Finanziaria è controllata al 51 per cento da una società (Coloniale)
della famiglia Tanzi, di cui Calisto detiene comunque il 51,8 per cento.
Come afferma il Ctu (pag. 49): "L’operazione (...) consente alla
famiglia Tanzi, sostanzialmente senza esborsi di denaro, ma con i soli
300 miliardi raccolti sul mercato: i) di reperire il denaro necessario
alla ricapitalizzazione di Parmalat; ii) di acquistare Parmalat
ponendola sotto il controllo della società quotata, che poi muterà la
sua denominazione in Parmalat finanziaria; iii) di mantenere il
controllo della società quotata stessa".
Lungi dal placare le ambizioni dell’imprenditore emiliano, questo nuovo
assetto è la premessa per un’ulteriore espansione senza freni sempre
basata sull’indebitamento. Dal 1990 al 1994 l’indebitamento quintuplica
(tasso di crescita annuo del 53 per cento). Ma il tasso di crescita
quasi raddoppia nel quadriennio successivo che porta il debito a 7,7
miliardi alla fine del 1998. Cosa è successo in questo periodo?
Semplicemente Tanzi è sceso ulteriormente nel vortice del Maelstrom,
cioè al livello in cui secondo la ricostruzione del Ctu (pag. 59)
"entrano in scena una serie di istituti di credito inernazionali che
seguono l’espansione del gruppo nella vesta di advisor nell’ambito delle
operazioni di acquisizione e/o di lead manager di emissioni
obbligazionarie". Sono queste banche (pag. 61) che concepiscono "una
serie di operazioni di finanziamento con formule e clausole del tutto
innovative" e spingono il gruppo "a porre in essere una serie di
operazioni di vera e propria finanza strutturata".
Di fatto dunque è chiara la terza sequenza del nostro film.
3) La quotazione in Borsa è il trampolino di lancio
per l’esplosione dei debiti, non per la raccolta di capitale di rischio.
Dal 1990 al 2003, le operazioni sul capitale portano
alle casse di Parmalat solo 416 milioni di euro, cioè il 7,7 per cento
degli investimenti realizzati, il 3 per cento della crescita complessiva
del debito.
Secondo la ricostruzione del commissario straordinario Enrico
Bondi, la gestione ha fornito risorse per 1 miliardo circa. (2)
Il che significa che l’indebitamento è cresciuto di ben 13,2
miliardi.
Il motivo è uno solo: ogni aumento di capitale avrebbe costretto Tanzi a
mettere mano al portafoglio se voleva mantenere da solo la maggioranza
assoluta del gruppo. Di fatto, la leva azionaria concessa dal gioco
delle scatole cinesi gli avrebbe consentito di sborsare solo il 25 per
cento delle nuove risorse, ma anche questo era giudicato evidentemente
eccessivo. Perché tirare fuori un solo euro, quando ci sono tante banche
là fuori pronte a organizzare operazioni sempre più sofisticate e
complesse?
Nei tempi della contestazione operaia una mano ignota aveva scritto sui
muri di Mirafiori: "mi fate passare otto ore al giorno in questo inferno
e pretendete anche che lavori?". Il motto di Tanzi suona più o meno
così: "sono un imprenditore pieno di idee e di capacità realizzative e
pretendete anche che ci metta i soldi?"
Di fatto però i soldi saranno non solo quelli delle banche, ma
soprattutto quelli dei privati risparmiatori, perché dalla metà degli
anni Novanta l’indebitamento si sposta sempre di più verso il mercato
obbligazionario, come vedremo fra poco.
segue
23/09/2008 Archivio Crac Lehman Brother, il terrore dei mutui, i risparmi degli investitori
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