La crisi del
gruppo Parmalat ha arrecato ingenti danni a innumerevoli investitori,
molti dei quali hanno intentato azioni "collettive" negli Stati
Uniti d’America. Quali possibilità hanno, invece, gli investitori
danneggiati di fare valere i loro diritti in Italia?
Le proposte di legge
Da quasi un mese la Commissione giustizia della
Camera è alle prese con alcuni progetti di legge, uno dei quali è di
iniziativa del governo, sull’introduzione della cosiddetta "class
action". Nella scorsa legislatura la Camera ne approvò uno analogo dopo
un lungo dibattito, ma il Senato non fece in tempo a esaminarlo.
Il problema è noto: immaginiamo che un’impresa danneggi un numero
considerevole di soggetti con lo stesso comportamento e che questo danno
sia complessivamente ingente, ma singolarmente minimo; i danneggiati, in
pratica, non hanno alcun incentivo o interesse ad agire, confrontando i
rischi e le spese connessi al processo, con il possibile risarcimento
del danno.
La versione americana
L’esperienza più importante e famosa in tema di class
action è quella statunitense: ogni danneggiato può agire e
chiedere l’introduzione di un’azione di "classe" al giudice, che è
chiamato a decidere in primo luogo sulla sua ammissibilità, e solo
successivamente a decidere sul merito. La sentenza di condanna,
peraltro, non vincola i danneggiati che dichiarano di non
volersene avvalere. La class action "all’americana" mostra però
un pericoloso lato oscuro. L’intero meccanismo è guidato dagli
avvocati, i quali sono rimunerati con una percentuale del valore
complessivo del risarcimento ottenuto con una sentenza favorevole o una
transazione: il risultato è un proliferare di azioni collettive,
le quali per lo più non sfociano in una sentenza di merito, ma in una
transazione.
Quindi, il problema delle azioni collettive potrebbe essere sintetizzato
così: da un lato si pone l’obiettivo di incentivare le azioni di
risarcimento, dall’altro, sorge il pericolo di unmoltiplicarsi di azioni
pretestuose o infondate. (1)
Vista dall’Italia
Torniamo in Italia e ai progetti in cantiere. Bisogna
subito sgombrare il campo da un equivoco. Il progetto del governo, così
come alcuni degli altri proposti, si fonda su una logica differente da
quella tipica delle class action americane: la legittimazione
ad agire è attribuita solamente alle associazioni dei consumatori,
alle associazioni dei professionisti e alle camere di commercio, ma non
ai singoli danneggiati.
Nel progetto del governo, il giudice emette una sentenza di condanna
"generica" e ogni singolo danneggiato dovrà poi agire individualmente
per ottenere il risarcimento del proprio danno. Pertanto, dal momento
che la legittimazione ad agire non spetta ai singoli danneggiati, non di
vera class action si tratta.
Da un punto di vista politico, la scelta è alquanto singolare. Nella
scorsa legislatura, infatti, i due partiti maggiori della coalizione ora
al governo hanno presentato proposte di class action assai simili
al modello statunitense. (2)
I limiti imposti dal diritto italiano
Il governo, inoltre, pare non cogliere l’occasione
propizia determinata da un suo stesso coraggioso provvedimento, ossia
l’eliminazione dall’ordinamento italiano del divieto del patto di
quota/lite: d’ora innanzi gli avvocati potranno determinare il loro
compenso in percentuale sui frutti della causa vinta o transatta, così
come avviene nel sistema americano.
Resta aperto il problema di rendere ogni meccanismo processuale nuovo
compatibile con l’articolo 24 della Costituzione, che riconosce a
ogni cittadino il diritto individuale ad agire per fare valere i propri
diritti, diritto che non può essere "espropriato" da alcun giudice senza
l’assenso del danneggiato. Il meccanismo americano, in base al quale la
sentenza o la transazione sono efficaci verso chiunque non abbia
dichiarato di volere uscire dalla "classe", sarebbe incostituzionale in
Italia.
C’è, infine, il nodo politico più significativo: come evitare il
proliferare di cause pretestuose? Il pericolo è fondato, ma la soluzione
proposta non lo risolve, poiché rischia di trasformare le nuove e acerbe
associazioni dei consumatori in strutture finalizzate esclusivamente
alla ricerca di azioni collettive.
Non ci sono ragioni reali, quindi, per non tentare un passo più
coraggioso e introdurre una vera e propria class action,
consentendo ai danneggiati di raggrupparsi in classi e ai giudici di
emanare una sentenza vincolante per tutti i partecipanti (in maniera
tale che l’impresa danneggiante non soffra i rischi dell’incertezza).
Per rispettare il vincolo costituzionale la soluzione è semplice: basta
attribuire alla sentenza (o alla transazione) forza vincolante solo
verso chi vi abbia espressamente aderito.
Il timore che questa innovazione generi un eccesso di litigiosità,
infine, potrebbe scemare introducendo una clausola di "scadenza",
come previsto di recente dal diritto tedesco sulle cause collettive in
materia finanziaria (3): si potrebbe indicare un periodo di
cinque o dieci anni, allo scadere del quale la legge cessa di essere
efficace, cosicché le forze politiche siano in grado di valutarne
l’efficacia e di introdurre eventuali modifiche.
(1) Eisenberg – Miller, in 1 Journal of
empirical legal studies (2004) p. 27 ss.
(2) AC 4639, Onn. Fassino et al., art. 30 e AC 4747, Onn.
Letta et al.,art. 3.
(3) KapMuG, entrato in vigore il 1/11/2005, sul quale v. Merkt,
in Giur. Comm., 2006.
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