Tempi tristi
per chi pensa che l’economia di mercato, il libero scambio e l’iniziativa
privata siano creatori di ricchezza, opportunità e virtù. I nazionalismi
mercantilisti impazzano, le spese pubbliche aumentano, le privatizzazioni
languono e a leggere alcune proposte contenute nei programmi politici delle
coalizioni che si sono fronteggiate alle elezioni, c’è da farsi cadere le
braccia. Anche l’alluvione normativa di fine legislatura se da un lato ha
affrontato temi che da troppo tempo languivano abbandonati, dall’altro, come
nel caso del decreto sul risparmio, ha iniettato qualche particella
aggiuntiva di dirigismo nel sistema.
Per tutte queste ragioni crepuscolari il nuovo Codice di autodisciplina
delle società quotate di Borsa Italiana arriva come una gradevole boccata
d’aria fresca
Autodisciplina liberale
Il Codice, che innova le precedenti edizioni del 1998 e
del 2002, è ben scritto e completo: pur lasciando ampi spazi alla
valutazione da effettuarsi nel caso concreto, non comprende prescrizioni
oscure o vuoti normativi.
L’elemento più importante, tuttavia, è il suo principio ispiratore,
vale a dire "la creazione di valore per gli azionisti", obiettivo
prioritario cui devono tendere gli amministratori della società. Non che la
massimizzazione del valore fosse assente nelle precedenti versioni, tutt’altro,
ma nel 2006 viene ribadita con forza e in più punti. Non credo che ciò sia
un caso.
Negli ultimi anni, invero, si è affermata la teoria degli stakeholder
(tutti coloro i quali hanno un interesse nell’azienda) di cui la
responsabilità sociale delle imprese (o Csr, dall’acronimo Corporate
Social Responsibility) è una logica conseguenza. In sintesi, i
propugnatori di questa visione affermano che l’impresa non deve avere a
cuore solo gli interessi dei suoi azionisti, ma di tutti quelli che hanno un
rapporto con essa, creditori, lavoratori, consumatori, residenti delle aree
limitrofe agli stabilimenti, comunità locali, eccetera. La responsabilità
sociale consiste dunque nell’integrazione "volontaria delle preoccupazioni
sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei
loro rapporti con le parti interessate", secondo la definizione della
Commissione europea.
Senza dilungarsi troppo sul tema, il concetto mi è sempre apparso un po’
vuoto. Se si vuol dire che non bisogna violare i diritti altrui, tale
obbligo è già ricompreso nel principio del neminem laedere (non
nuocere agli altri) del diritto romano. Se si vuole incoraggiare il rispetto
dei contratti, c’è il diritto privato (e in ogni caso l’interesse primario
di un’azienda è far felici i clienti e poter contare sui fornitori). Qualora
si voglia salvaguardare l’ambiente o l’onestà di comportamenti, c’è il
diritto amministrativo o quello penale. Se invece si hanno di mira
iniziative benefiche o caritatevoli, sono gli azionisti che le possono
decidere coi loro soldi, non i manager o gli azionisti di maggioranza col
denaro dei soci, magari di minoranza, a meno che non si tratti di iniziative
promozionali. I dirigenti che rispondono a troppe esigenze, alla fine
diventano legibus soluti.
Insomma, la chiarezza del Codice è la benvenuta anche tenendo conto di
alcune caratteristiche italiane. Nel Belpaese, non è sparito il vizio dei
politici di cercare di indirizzare gli investimenti delle società a
partecipazione pubblica verso fini elettoralistici e qualche volta anche gli
investitori privati danno l’impressione che nelle società in cui sono in
posizione dominante, perseguano potere e prestigio a scapito del profitto
(legittima scelta personale, ma non se imposta ai soci di minoranza). Tali
temi sono esplicitamente trattati nel Codice quando, ad esempio, si cerca di
stabilire le qualità dell’amministratore indipendente e si afferma
che "l’eventuale attività politica svolta in via continuativa da un
amministratore potrebbe essere presa in considerazione ai fini della
valutazione della sua indipendenza".
Ancor più chiara la presa di posizione contro l’estrazione privata di
benefici derivanti dal controllo, quando nel commento all’articolo 10 si
afferma che "gli interessi della maggioranza e della minoranza devono
confrontarsi all’atto della nomina degli organi sociali; successivamente
tali organi dovranno operare esclusivamente nell’interesse sociale e per la
creazione di valore per la generalità degli azionisti". Molto bene
Le novità
A parte la presa di posizione di principio a favore della
visione contrattualistica dell’impresa, il Codice contiene altre importanti
novità che riassumiamo in ordine sparso poiché ognuna meriterebbe un
approfondimento a sé stante.
In primo luogo, si introduce un concetto di auto-valutazione periodica
del consiglio di amministrazione, già presente nelle best practice
internazionali. Viene ribadita l’autonomia, anche in un’ottica di gruppo,
del processo decisionale di ogni singola società. Inoltre, nelle società in
cui il presidente del consiglio abbia anche ruoli esecutivi (cumulo
sconsigliato dal Codice), si introduce la figura del lead independent
director, il consigliere guida degli indipendenti. E gli
indipendenti, per essere ritenuti tali, dovranno avere requisiti veramente
stringenti, sotto il controllo del collegio sindacale che verificherà la
corretta applicazione dei criteri "adottati dal consiglio per valutare
l’indipendenza dei propri membri".
I comitati remunerazioni, nomine e per il controllo interno dovranno essere
composti per la maggioranza da amministratori indipendenti e senza la
presenza di quelli esecutivi (in passato si richiedeva solo una maggioranza
di non esecutivi). Il preposto al controllo interno, poi, coinciderà
tendenzialmente col responsabile dell’internal audit e verrà nominato
dall’intero consiglio (a garanzia della sua autonomia).
Tutte novità sulle quali, e qui sta un’ulteriore innovazione, la Borsa
si impegna a esercitare il proprio controllo, non affidandosi alle semplici
dichiarazioni di conformità delle società. A questa vigilanza della Borsa si
aggiunge, poi, quella più stringente (e minacciosa) che, a seguito
dell'approvazione del decreto sul risparmio (decreto legislativo 262/2005)
sarà la Consob ad esercitare.
Una curiosità: il Codice suggerisce di "aggirare" la nuova, assurda norma
introdotta nel decreto sul risparmio sull’obbligatorietà del voto segreto.
Il commento all'articolo 6, difatti, ricorda sibillinamente che il
presidente dell’assemblea può "segnalare agli azionisti presenti che essi
hanno la facoltà di dichiarare il loro voto al fine di rendere il
procedimento assembleare più trasparente e funzionale" (a contrariis:
quello col voto segreto non è né l’uno né l’altro). Inoltre "è auspicabile"
che gli azionisti qualificati (tra cui quelli di controllo e gli
istituzionali "dichiarino spontaneamente il loro voto nelle assemblee
chiamate ad eleggere gli amministratori".
Concludendo, il nuovo Codice sembra quasi troppo buono per essere vero:
speriamo che a pretender troppa virtù dai propri associati la Borsa non sia
sommersa dai loro peccati.
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