La riforma del risparmio ha trasferito i poteri antitrust per le banche dalla
Banca d’Italia all’Auorità garante della concorrenza e del mercato. È un
cambiamento che invita a una riflessione sui temi della concorrenza bancaria
non più condizionata dalla precedente “anomalia”.
Dov’è il deficit
di concorrenza
Fino ad oggi, nel
dibattito pubblico, l’attenzione alla politica antitrust per le banche si è
prevalentemente appuntata sulle concentrazioni. Questo è per certi versi
paradossale. L’antitrust si preoccupa di concentrazioni quando creano “posizioni
dominanti”, ma questo esito è poco probabile in un settore dove il numero delle
imprese è elevato (circa ottocento). Inoltre, non ci si rammarica che, nel
passato, concentrazioni tra banche siano state autorizzate, ma che siano state
ostacolate, utilizzando, peraltro, poteri di vigilanza che correttamente sono e
restano alla Banca d’Italia.
Individuare dove si
annida un deficit di concorrenza nel sistema bancario italiano richiede, a mio
parere, un cambiamento di prospettiva: più che con i rischi del monopolio
occorre misurarsi con quegli aspetti di organizzazione del settore che,
influenzando le interrelazioni tra le banche, favoriscono comportamenti
collusivi.
Negli anni Ottanta,
quando fu avviata la liberalizzazione, operava in Italia un numero eccessivo
di banche, molte delle quali sopportavano costi elevati, per l’incapacità di
sfruttare le pur limitate economie di scala e di diversificazione. Questo quadro
era anche lo specchio di forme di convivenza non competitiva che permettevano
agli istituti inefficienti di operare sul mercato. La liberalizzazione mise in
moto un processo di crescita interna ed esterna, che ne ridusse il numero e fece
aumentare il grado di concentrazione dell’industria.
Inquadrate in questa
ottica, le concentrazioni tra banche assumono addirittura un carattere
pro-concorrenziale: perché modificano in senso efficiente la struttura
dimensionale del settore; perché evitano il fallimento della banca che soccombe
nel confronto competitivo, minimizzandone la dissipazione del capitale
informativo; perché la possibilità di trasferire il capitale informativo riduce
i costi di uscita e, se ha luogo verso nuovi concorrenti, anche i costi di
entrata nel mercato.
Se si guarda
all’organizzazione
A differenti conclusioni
si arriva, invece, quando si guardi ad alcuni aspetti di organizzazione
industriale del settore che incidono sulle relazioni di mercato tra le banche.
Qui, una questione
importante attiene agli ostacoli alla mobilità della clientela che
rendono difficile il confronto concorrenziale tra le banche. Alcuni di questi
ostacoli originano da vincoli informativi (in particolare, nell’attività di
prestito), sono comuni a tutti i sistemi bancari e in ampia misura
ineliminabili. Altri, invece, dipendono da assetti organizzativi
specifici dell’industria che, nel caso italiano, assumono intensità e
caratteristiche peculiari. Per esempio, l’integrazione verticale tra le diverse
fasi dell’attività di gestione del risparmio, in un contesto nel quale la banca
si presenta ai risparmiatori come un soggetto che, in un solo luogo e con un
solo rapporto, offre l’intera gamma di servizi bancari, finanziari e
assicurativi. Questo assetto “lega” il risparmiatore alla “sua” banca e agli
specifici prodotti che questa gli offre, riducendone il potere di arbitraggio e
determinando segmentazioni artificiali del mercato.
Il sistema bancario
italiano deve fare i conti con questi assetti organizzativi. Non solo ostacolano
la concorrenza nei servizi ai risparmiatori, ma producono anche effetti negativi
sugli incentivi delle banche a investire e innovare nell’offerta dei
servizi alle imprese, giacché tali incentivi risultano relativamente più ridotti
quanto più alte sono le rendite nei servizi al risparmio.
Assetti organizzativi
che ostacolano la mobilità della clientela facilitano inoltre equilibri
collusivi. E, in effetti, i recenti interventi antitrust nel settore
bancario hanno riguardato intese anticoncorrenziali. Come la procedura sulle
nuove norme bancarie uniformi, con la quale l’Agcm (con propria decisione) e la
Banca d’Italia hanno modificato la disciplina relativa allo ius variandi
e al conflitto di interesse per le banche che offrono servizi di gestione
individuale di portafogli. In entrambi i casi, le clausole originarie erano
anticompetitive perché accrescevano artificialmente i “costi di sostituzione”
per i risparmiatori. Nella stessa prospettiva si muove l’indagine conoscitiva
dell’Agcm sulla natura e l’intensità degli ostacoli alla mobilità della
clientela.
Resta ancora una
considerazione. In un quadro più attento alle interrelazioni tra le imprese, le
concentrazioni tra banche rientrano in gioco, ma con effetti inattesi:
una concentrazione rompe in genere una “simmetria” nel contesto nel quale si
svolge l’interazione strategica delle imprese e questo può avere conseguenze
pro-concorrenziali, se rende instabili eventuali intese anticompetitive. Ciò
presuppone, tuttavia, che le imprese che si concentrano non siano condizionate
nelle proprie scelte da altre forme di coordinamento: perché in un
sistema “chiuso”, nel quale il riassetto degli equilibri industriali fosse
affidato a un “disegno” invece che alle forze del mercato, difficilmente
l’impresa che risulta dalla concentrazione sarebbe incentivata a comportamenti
più competitivi.
Ma è proprio questa la
difficoltà che emerge, dal punto di vista antitrust, di fronte alle modalità con
cui hanno trovato finora attuazione le concentrazioni bancarie in Italia.
L’Autorità di vigilanza, che pure ha favorito il processo per affrettare la
riorganizzazione efficiente del settore, lo ha però al contempo perseguito con
il chiaro obiettivo di controllare e governare l’evoluzione dell’assetto
industriale. La preoccupazione è che questa circostanza abbia esaltato i
fattori di coordinamento tra le banche, condizionandone l’interazione
concorrenziale, e rendendo più difficile la rottura, e più facile il
ristabilirsi, di prevalenti forme di convivenza di “quieto vivere”.
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