In un ambiente di proprietà fortemente concentrata, di scarso attivismo degli
investitori e di controlli ambientali modesti, il disegno di legge sulla
tutela del risparmio licenziato dalla Camera dei deputati si propone di
contenere lo spazio di arbitrio dell’azionista di controllo. Lo fa, tra l’altro,
imponendo alle società quotate di prevedere negli statuti un voto di lista per
l’elezione di un consigliere di minoranza, con soglia massima del 2,5 per
cento del capitale per la presentazione delle liste.
Critiche e obiezioni
Questa innovazione ha sollevato forti critiche: espresse in recenti
contributi a lavoce.info e in documenti di Assonime e di Abi, esse paiono
trovare orecchie attente in Senato. In termini generali, si è eccepito che la
rappresentanza delle minoranze in consiglio riflette "una malintesa
equiparazione tra democrazia parlamentare e democrazia societaria";
comprometterebbe "il delicato equilibrio della governance delle società
per azioni", "dato da una maggioranza interessata alla gestione e che è perciò
legittimata a gestire e da una minoranza, interessata invece a un ritorno
patrimoniale dell’investimento, che
coopera nel controllo"; renderebbe "più difficili le scelte
imprenditoriali", che poggiano sul principio di maggioranza" (Assonime). In
termini più specifici, si osserva che la soglia massima del 2,5 per cento,
troppo alta per offrire espressione al risparmio diffuso, è tuttavia troppo
bassa considerando la modesta capitalizzazione di tante società quotate: con
poca spesa un concorrente o un professionista di greenmail potrebbe
acquistarsi un
posto in consiglio ; alternativamente, aggiunge Assonime, l’azionista di
controllo finirebbe per promuovere liste di minoranza "amiche".
Comprendo che il tema è delicato; ma, forse perché non sono un giurista, stento
a comprendere queste obiezioni. Mi sfugge la distinzione fra "interesse alla
gestione" (delle maggioranze) e "interesse al ritorno patrimoniale" (delle
minoranze), potendo una mala gestio compromettere proprio quel
ritorno patrimoniale.
In base a tante passate esperienze (e non solo ai casi più clamorosi), mi riesce
difficile (e riesce ancor più difficile agli osservatori stranieri) attribuire
pregi particolari al "delicato equilibrio" – se pur di equilibrio si tratta –
fra organi societari espresso dalla governance delle nostre
società. Concordo con chi scrive che in una situazione di concentrazione
proprietaria come quella italiana "la contrapposizione significativa (…) è
soprattutto fra soci di maggioranza e di minoranza", e che pertanto il problema
principale riguarda gli "abusi fatti nell’interesse del socio o dei soci di
controllo". (1)
Di fatto, il compito degli amministratori non esecutivi tende sempre più a
trascolorare in una funzione di controllo sulle decisioni gestionali: come dice
la Raccomandazione della
Commissione europea sul ruolo degli amministratori senza incarichi
esecutivi, "nelle società con azionisti di controllo, assume maggiore importanza
la maniera in cui assicurare che nella gestione della società si tenga
sufficientemente conto degli interessi degli azionisti di minoranza". (2)
Del resto, la previsione del voto di lista con rappresentanza delle
minoranze non è certo nuova nella realtà societaria italiana: la ha imposta la
legge 474/1994 per le società privatizzate; è ora contenuta negli statuti
di dodici fra le prime ventisette quotate, con quorum oscillante fra l’1 e il 3
per cento. Queste esperienze hanno meritato generale apprezzamento, soprattutto
nel caso delle società privatizzate; né sembra che esse abbiano dato luogo a
situazioni endemicamente conflittuali e a paralisi gestionali. Aggiungo che la
previsione statutaria è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’elezione
di un amministratore di minoranza: un sindaco di minoranza, pur se gli
statuti devono obbligatoriamente assicurarne la possibilità di elezione, è di
fatto presente solo in circa un quarto delle società quotate. A queste
osservazioni si eccepisce che tali esperienze riguardano società grandi, in cui
l’elezione è avvenuta grazie allo sforzo organizzato degli investitori
istituzionali: proprio la loro assenza nelle società minori aprirebbe il campo a
concorrenti e disturbatori. A parte il fatto che ciò non è avvenuto
sinora nel caso dei sindaci, a motivo dell’inerzia delle minoranze, si deve
ammettere che quel rischio può esistere. Ma, se esiste, esso dipende solo
dall’ostinata passione del nostro legislatore per l’imposizione di rigide soglie
quantitative: come, nel caso in esame, quella massima del 2,5 per cento per la
presentazione di una lista. Per evitarlo, mantenendo tuttavia la rappresentanza
delle minoranze, esiste un rimedio semplice: rendere la soglia flessibile
(maggiore per le società minori, e viceversa), affidando alla Consob il compito
di definirla in relazione alla dimensione del capitale sociale, o della
capitalizzazione, o ancor meglio del flottante della società.
La questione dell’indipendenza
Mi chiedo se l’obiettivo perseguito dai critici non sia quello di evitare
comunque una rappresentanza delle minoranze, anche se limitata e anche se
meglio disciplinata.
Quasi a compenso, si propone invece di prevedere un numero minimo di
amministratori indipendenti. Non mi pare un’alternativa valida. L’esercizio di
definire con enumerazione tassativa i requisiti di indipendenza è in
parte vacuo: quelli indicati dal disegno di legge, o i nove elencati dalla
Raccomandazione della
Commissione europea rappresentano condizioni necessarie a evitare conflitti
d’interesse in capo al soggetto, ma non sufficienti per garantirne una
effettiva indipendenza, la quale non è suscettibile di definizione formale.
E infatti la Raccomandazione, dopo il lungo e puntiglioso elenco, è costretta a
introdurre una sorta di prescrizione di chiusura:
"l’amministratore indipendente si impegna (…) c) a esprimere con chiarezza la
sua opposizione qualora una decisione del consiglio d’amministrazione (…) possa
danneggiare la società", sino a trarre "le conclusioni del caso" qualora
"nutr[a] serie riserve". Ben detto. Ma chi ci dice che ogni amministratore che
soddisfa i requisiti formali di indipendenza, la cui conferma nell’incarico
dipende tuttavia dall’azionista di controllo, è sempre pronto a mantenere
quell’impegno? Un’antica storiella inglese narra di un giornalista radicale
assunto da un giornale conservatore con stipendio lauto e garanzia di libertà di
opinione, il quale, a un amico che lo vedeva intristito e gli domandava se, ben
pagato, non potesse scrivere quello che voleva, rispose "I can, but I don’t".
(1) Mario Stella Richter jr, "Gli amministratori non esecutivi
nell’esperienza italiana", relazione alla giornata di studio su "Controlli sulla
gestione societaria e tutela del risparmio", marzo 2005.
(2) Gazzetta ufficiale dell’
Unione europea, L 52/51, 25.2.2005.
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