Sul fronte di battaglia del riassetto del sistema bancario i
contendenti stanno schierando le proprie truppe, con tanto di alleati e relative
strategie: da un lato i difensori della sua “italianità”, dall’altro gli
attaccanti esteri, pronti ad ampliare la loro già significativa presenza nelle
compagini societarie dei grandi gruppi nazionali.
In realtà, dagli esiti della battaglia non dipenderà soltanto il futuro del
nostro sistema creditizio, ma quello di tutto il mercato dei servizi finanziari
comunitari.
Il campo di battaglia
Chi difende strenuamente i propri confini - bisogna dirlo, non si tratta solo
del nostro Governatore, ma anche di molte autorità di vigilanza di altri Stati
- intende rafforzare le proprie banche per renderle competitive sul mercato
europeo.
Lo strumento utilizzato è il blocco all’acquisto o all’incremento delle
partecipazioni al capitale degli intermediari nazionali da parte di banche
estere. Spesso, con quella che una volta chiamavano moral suasion, è
sufficiente una informale comunicazione di mancanza di gradimento per frenare
sul nascere ogni possibile e appena accennata ambizione.
Gli attaccanti, e cioè le grandi banche europee a caccia di nuovi e
profittevoli sbocchi, invocano una radicale modifica della normativa comunitaria
che consente la conservazione delle barriere nazionali, impedendo la nascita di
operatori in grado di competere alla pari con i giganti di oltre oceano.
Norme e interpretazioni
Il problema, però, non è la normativa comunitaria, ma la
sua applicazione. Le disposizioni della seconda direttiva Ce che consentono alle
autorità di vigilanza di contrastare acquisizioni del capitale delle banche da
parte di soggetti non in grado di garantire la “sana e prudente gestione”,
sono opportune e mirano a prevenire acquisizioni azionarie che potrebbero
pregiudicare la buona conduzione della banca e la sua stabilità.
Le difficoltà derivano dal fatto che le singole autorità interpretano
la clausola della “sana e prudente gestione”, non come uno
strumento di vigilanza sulla stabilità della banca e del sistema creditizio nel
suo complesso, ma come un grimaldello per decidere la morfologia del sistema, e
cioè chi e con quale bandiera ne deve far parte.
Utilizzare i poteri autorizzativi per privilegiare le aggregazioni nazionali a
danno di quelle transfrontaliere, rappresenta un’opzione politica,
condivisibile o meno. Esula, però, o meglio dovrebbe esulare, dai compiti di
vigilanza.
In sostanza, la nota dolente delle regole comunitarie e delle normative
nazionali che le hanno recepite, non sono tanto i poteri di autorizzazione, ma
il fatto che le autorità di controllo non riescono a resistere alla tentazione
di utilizzare questi poteri in funzione degli interessi di bottega dei propri
paesi.
La conseguenza è un mercato finanziario denominato da un’unica valuta, ma al
cui interno le giurisdizioni delle singole autorità producono una innaturale
frammentazione e finiscono, in omaggio all’esigenza di promuovere tanti
“campioni nazionali” (ma nani internazionali), con il bloccare la possibile
e necessaria crescita dei “campioni europei”.
Per un’autorità europea
L’unica realistica soluzione a questi problemi non risiede nella ricerca di
ulteriori e faticose modifiche della disciplina comunitaria, ma nel coraggio di
affrontare finalmente il vero terreno sul quale si gioca il futuro successo del
mercato finanziario europeo, quello della integrazione e della centralizzazione
della vigilanza.
Soltanto una struttura di supervisione fondata su una autorità europea potrebbe
garantire una applicazione della normativa uniforme, coerente con lo spirito
comunitario, e non schiacciata e condizionata dai bisogni dei diversi paesi.
Soltanto una simile struttura è in grado di interloquire con operatori che
adesso sono costretti a confrontarsi con tanti e diversi organismi di controllo,
ciascuno con il suo linguaggio, i suoi interessi e la sua (enorme)
discrezionalità.
È indubbio poi che l’autorità europea dovrebbe avere quegli stessi
requisiti di autonomia, indipendenza e accountability che
devono qualificare qualsiasi autorità degna di questo nome. Ma non mancano
adeguati punti di riferimento, a partire dalla Banca
centrale europea, alla quale sono già adesso attribuibili, sebbene con
procedura molto complessa, compiti di vigilanza bancaria.
Ed è altrettanto indubbio che le autorità nazionali non perderebbero certo il
loro “mestiere” perché vigilanza significa anche contatto diretto e
quotidiano con gli operatori, controlli ispettivi, vicinanza al territorio,
gestione del patrimonio informativo. La loro sarebbe, però, una attività da
esercitarsi nell’ambito di un indirizzo unitario e coerente con la realtà di
un mercato ormai senza confini.
Se questo deve essere un vero mercato, aperto cioè alla concorrenza, privo di
barriere più o meno giustificate in base a presunti criteri di reciprocità, e
soprattutto disciplinato da regole trasparenti e uguali per tutti, occorre
pensare a una architettura dei controlli che presidi e garantisca in ogni
momento questi principi.
Il rischio è altrimenti quello che nella battaglia del riassetto del sistema
creditizio, il vero sconfitto sia il risparmiatore il cui unico
interesse è quello di avere a che fare con banche efficienti, corrette e
trasparenti. Per le quali sia, appunto, garantita “la sana e prudente
gestione”, a prescindere dai colori della loro bandiera.
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