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25/12/2007 Buon Natale (Fabrizio Casari, http://altrenotizie.org)
Avrete certamente passato un buon Natale. Avrete mangiato più del
necessario, bevuto molto più dell’opportuno e, in
compagnia delle persone alle quali volete bene, vi sarete
scambiati abbracci e baci, in un tintinnìo di calici che
svuotavano rapidamente le bottiglie di champagne accampate
per l’occasione in ogni dove delle vostre case. Avrete
celebrato la nascita di Gesù, palestinese, di cui si
ricordano i miracoli e la croce, ma non la cacciata dei
mercanti dal tempio; di cui si ricorda l’amore universale
me non quello per Maria Maddalena. Proprio pensando a Gesù,
tra una fetta di panettone ed un calice, alcuni di voi
avranno gioito nel ritrovare le radici della religiosità.
Insomma sarete satolli, soddisfatti, a pancia piena e
coscienza pulita. Speranzosi in un nuovo anno che sperate
migliore di quello che sta finendo o, in alcuni casi,
almeno bello tanto quello trascorso. Tutto bene, dunque. O
no? Forse non è il momento adatto per parlarne o forse sì.
Perché, scusate se lo si ricorda, ma qualcosa, tra le
tante che appena disturbano, ci sarebbe. Ha il volto e lo
sguardo di quelle centinaia di migliaia di immigrati che
non hanno avuto ogni ben di dio sulla tavola e, forse,
nemmeno le molliche che vi cadevano. Che hanno brindato a
lacrime invece che a champagne e che i loro cari, se va
bene, avranno potuto sentirli al telefono, rapidamente; o,
cosa più probabile, li avranno sentiti solo nel cuore,
gonfio di tristezza e carico di paura. Sono quelle donne e
quegli uomini che partono persone e arrivano numeri. Che
diventano quote, perché solo quelli di cui abbiamo bisogno
possono sperare nella nostra cristiana
accoglienza.
Arriveranno qui laceri e sconfitti, quelli che ce la
faranno, per fornire sussidiarietà a basso costo ed
ottenere in cambio lavoro nero, sfruttamento, umiliazioni.
Sono uomini e donne che hanno faticato per venire nel
nostro paese, hanno rischiato la vita per scoprire
l’inferno del nostro paradiso. Sono arrivati su carrette
del mare, sfidando la paura e facendo spallucce alla morte
per poter immaginare, anche solo immaginare, cosa
significhi mangiare. O cosa significhi sperare che un
giorno, magari lontano, potranno ritrovare le loro radici,
riscattare una vita segnata da un destino infame. Se non
incontreranno un Cpt, se non avranno il battesimo della
beffa nel danno, troveranno una lingua sconosciuta, un
luogo sconosciuto, una sopravvivenza da inventare, un
caporale cui obbedire o un padroncino che si sente un
padreterno. Saranno senza diritti, pieni di obblighi con
al primo posto quello del silenzio, perché l’obbedienza
comincia dalla bocca.
Arrivano qui dopo che gli abbiamo impedito di vivere a
casa loro, meglio dircelo. Quando il nord ricco e
opulento, con solo il 20% della popolazione, consuma l’85%
delle risorse del mondo, per i restanti non ci sono molte
possibilità. E sembra invece che si suggerisca loro di
restare a cogliere briciole, malattie e guerre, affinché
noi s’importi solo quello di cui abbiamo bisogno. Con una
mano deprediamo, con l’altra teniamo lontani i depredati.
Così come prima riempiamo il pianeta d’immondizia,
scaricandovi eccedenze e rifiuti dei nostri consumi, e poi
chiediamo ai paesi emergenti di farsi carico della
riduzione dell’inquinamento. Ma i traffici dei rifiuti
parlano chiaro: consideriamo il sud del mondo come la
nostra pattumiera. Gli si chiede di tutelare tutti mentre
ci facciamo gli affari (sporchi) nostri. Per noi la
tutela, per loro gli scarichi. E’ ipocrisia allo stato
puro: la consapevolezza del disastro ambientale è venuta a
galla solo quando alcuni paesi hanno provato ad
industrializzarsi. Sono quelli che hanno deciso di abitare
il pianeta, di provare a sfuggire il destino barbaro che
li vuole variabili numeriche inclinate verso il basso. In
un baleno, da paesi miserabili sono diventati paesi
concorrenti. E noi, di colpo, siamo diventati tutti
ambientalisti.
Chi invece non può ambire a vivere vicino casa viene a
cercare di sopravvivere ovunque. Dietro ognuna e ognuno di
loro c’è un luogo, dei volti, un tormento. Davanti a
ognuno di loro ci siamo noi, con le pance piene e le teste
vuote, consumatori inarrestabili dell’inutile e alacri
risparmiatori di buon senso. Hanno sempre un nome, quasi
mai un cognome. Sono declinati sui mestieri e nominati con
vezzeggiativi, nomignoli ironici, di quella spiritosaggine
penosa che pare andare per la maggiore; viviamo, forse
sentendoci a nostro agio, in tempi nei quali l’abitudine
all’idiozia sembra aver asfaltato il pensiero. Ed è
stucchevole scoprire quanto siamo aperti ed esterofili con
europei del nord ed americani, canadesi o giapponesi
mentre diventiamo arroganti e violenti se sono dell’est
Europa o dell’Africa. La differenza è semplice: i ricchi
sono stranieri, i poveri sono immigrati. Proprio così:
cristianamente, ci mancherebbe, ci piacciono gli stranieri
che comprano ma non vendono, che offrono ma non si
offrono. Quindi firme e ronde, petizioni e proteste. Poi,
tutti a messa, nel santo natale, a stringerci le mani nel
segno di pace.
Sono arabi, latinos, romeni e polacchi, filippini e, di
volta in volta, quello che servono, quasi sempre quello
che non abbiamo più voglia di fare ma del quale abbiamo
tutti ancora bisogno. E sono coloro sui quali scarichiamo
le nostre inadeguatezze, la schiavitù dei nostri bisogni,
le frustrazioni che accumuliamo. Dimentichi di quando
emigravamo per mangiare e dar da mangiare, abbiamo rimosso
le umiliazioni subite. Eppure sappiamo che loro, gli
“intrusi”, fanno il nostro paese né più né meno di come e
quanto i nostri padri fecero la fortuna e la vergogna di
altri paesi. Che il nostro futuro sarà con loro o,
semplicemente, non sarà. Quel palestinese di cui avete
appena festeggiato la nascita, se fosse qui, sarebbe sulle
strade con loro, non a tavola con noi.
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