Con
la mappatura completa del genoma umano, nel 2001 i genetisti Francis Collins e
J. Craig Venter hanno dimostrato che il concetto di razza non ha fondamento
scientifico. Ma la ricerca medica per curare alcune patologie di gruppi umani
definiti in base al colore della pelle continua.
Lungo il corso della storia la teorizzazione del razzismo
si è spesso avvalsa del contributo della ricerca medico-scientifica. Con la
nascita delle prime teorie medico-biologiche per giustificare l’inferiorità di
un popolo rispetto a un altro, scienza e pregiudizio razziale hanno stretto un
rapporto decisivo. Gli esempi più nefasti di questa corrispondenza hanno trovato
una sistematizzazione vera e propria solo quando gli stereotipi sono stati
estesi, oltre che alla razza, anche alla cultura e alla fisiologia di un gruppo
umano. Nel 2000 durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, il direttore del
National Human Genome Research Institute Francis Collins e il presidente della
Celera Genomics, J. Craig Venter annunciano di aver completato la “bozza”
completa del genoma umano. In quell’occasione i due genetisti affermano che a
livello molecolare le differenze razziali non hanno alcuna base scientifica: il
DNA umano è simile per il 99,9% dei casi. La ricerca ha finalmente rifiutato le
basi scientifiche della discriminazione razziale? Non del tutto. Anche se
l’acido desossiribonucleico degli uomini si assomiglia quasi al 100%, esiste uno
0,1% che fa la differenza. Il DNA è formato da 30.000 geni a loro volta composti
da tre miliardi di basi (adenina, timina, citosina, guanina). Quando una base è
diversa si verificano i casi di polimorfismo nucleotidico o SNP che cancellano
l’uguaglianza tra un individuo e l’altro.
Concentrandosi
sulla percentuale “residua”, la ricerca ha in pochi anni continuato sullo stesso
terreno abbandonato dalla scienza dopo l’annuncio di Collins e Ventre.
Confidando nella nuove tecnologie informatiche, l’attenzione dei ricercatori si
è spostata sullo 0,1% di differenza genetica. Poco tempo dopo la lettura della
sequenza completa del menoma umano, l’IBM annuncia l’arrivo di un mega
elaboratore in grado di compiere 7,3 milioni di calcoli al secondo sul DNA.
All’origine la macchina era stata concepita per permettere di personalizzare le
terapie genetiche. Ma a seguito del decesso nel 1999 di un paziente sottoposto a
questo tipo di cure, la strada della personalizzazione si interrompe. Dopo
questa impasse le biotecnologie cominciano a guardare verso nuovi orizzonti di
sviluppo, a cominciare dalla genomica, una nuova branca della genetica che si
occupa dell’analisi comparativa del genoma di differenti organismi e “tipi
umani”. Le prime scoperte a riguardo arrivano dall’Islanda. Il parlamento del
Paese aveva da poco approvato una proposta di legge, nella quale dava a una
società di biotecnologia la possibilità di utilizzare una banca dati genetica di
tutta la popolazione dell’isola: all’epoca circa 270.000 persone. Le
informazioni e i dati medici sulla popolazione conservati per più di un secolo,
sono stati essenziali per la ricerca biotecnologia. Secondo la società,
l’analisi di campioni di sangue e tessuti presenti in archivio associati a
quelli più recenti hanno permesso di rintracciare i geni responsabili delle
patologie che insidiano l’uomo. Per gli studiosi il punto di forza di questa
ricerca risiede proprio nell’omogeneità della banca dati utilizzata. Gli
islandesi si assomigliano geneticamente e ciò facilita il monitoraggio delle
mutazioni all’origine delle malattie e di conseguenza lo studio di nuove terapie
per combatterle. Il primo passo verso la cura di gruppi umani definiti in base
alla loro appartenenza è compiuto.
La tappa successiva si verifica quando nel marzo 2001 la
Food and Drug Administration, l’organismo di controllo federale degli Stati
Uniti su alimentazione e farmaci, stipula un accordo nel quale dà diritto a una
società specializzata in biotecnologie, la NitroMed, di cominciare una ricerca
sul primo “farmaco etnico” studiato appositamente per pazienti neri: il BiDil.
La medicina è in grado di aumentare i livelli di ossido nitrico (un derivato
dell’azoto) del sangue e, di conseguenza, prevenire l’affaticamento cardiaco. Si
tratta della combinazione di due farmaci per il cuore i cui test fallimentari
risalgono a 20 anni fa. Originariamente il medicinale viene concepito per una
popolazione ben più vasta di quella nera. Ma gli studi clinici sull’efficacia
del BiDil non danno risultati notevoli e l’FDA ne rifiuta l’approvazione nel
1997, perché l’applicazione poggia su studi superati. Cosa succede dopo?
Nonostante la sua bocciatura, la ricerca riesamina i dati e dimostra che nei
vecchi test il BiDil ha avuto effetti positivi su una parte del campione di
individui a cui è stato somministrato: 395 neri. Non solo, i dati raccolti negli
USA e riportati dalla rivista Science sono ancora più chiari. A
differenza dei colleghi bianchi, gli afro-americani rappresentano quella fetta
di popolazione 10 volte più soggetta all’insufficienza epatica, 3 volte
all’ipertrofia cardiaca e 2 volte al diabete. Questi dati spiegano le ragioni
dell’introduzione sul mercato farmacologico del medicinale da somministrare agli
afro-americani. Ecco quindi arrivare la seconda valutazione dell’FDA.
L’organismo federale americano stabilisce che potenzialmente il farmaco è in
grado di evitare scompensi cardiaci nei soggetti di colore e dà via libera al
brevetto. Dal 2004 il BiDil può essere prescritto come rimedio benefico per gli
americani neri che soffrono di cuore.
Negli
Stati Uniti associare alcune patologie con il colore della pelle non è un
segreto. La ricerca scientifica fondata sulla razza è sostenuta da studiosi come
Sally Satel, psichiatra e docente all’Università di Yale. La studiosa ha
apertamente proclamato di fare “medicina razziale”, per migliorare l’iter
diagnostico e il trattamento dei pazienti. Se per esempio ha in cura un nero che
soffre di depressione, prescrive dosi più deboli di Prozac, perché i dati
clinici analizzati dalla ricerca farmacologia hanno dimostrato che numerosi
afro-americani metabolizzano gli antidepressivi più lentamente rispetto a
caucasici e asiatici. Dal colore della pelle le differenze indicate da alcuni
studiosi americani si estendono anche ad altre “disfunzioni”, come anemia e
ipertensione. A soli 4 anni dall’annuncio che la razza non ha alcuna base
scientifica, la medicina americana continua a somministrare farmaci in modo
differenziato nonostante gli effetti benefici delle cure siano blandi. È il caso
del Cozaar, un prodotto farmacologico utilizzato per diminuire la pressione
arteriosa, che ha risolto solo pochi casi di ipertensione tra la popolazione
nera. La ricerca tuttavia continua. Uno studio in corso sponsorizzato dal
laboratorio AstraZeneca, per esempio, sta analizzando gli effetti di un farmaco
anticolesterolo su cittadini americani provenienti dall’Asia del Sud, come gli
indiani, considerati individui più sensibili alle malattie cardiovascolari
legate al colesterolo. Quali le ragioni di tante ricerche? In campo medico i
ricercatori hanno individuato geni che espongono l’organismo ad alcuni tipi di
malattie e altri che vengono coinvolti nelle dinamiche del farmaco. Le risposte
a una terapia farmacologia possono dipendere da uno qualsiasi di questi geni. Le
unità ereditarie del cromosoma inoltre si distribuiscono in modo diverso tra le
popolazioni. Si è riscontrato poi che un tipo di mutazione genetica avviene con
più frequenza in certe zone geografiche e meno in altre. Tuttavia la scienza non
dispone ancora di test genetici efficaci per dimostrarlo.
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USA / Il primo farmaco prodotto su misura per afroamericani
Un'azienda
farmaceutica vuole commercializzare il primo farmaco prodotto su misura per
afroamericani. Si chiama BiDil ed e' una medicina per il cuore; i test clinici
sui neri hanno dato risultati tanto positivi da far interrompere la
sperimentazione e chiedere subito l'autorizzazione alla vendita. Questo caso
riacutizza il dibattito sulle "terapie etniche", in corso da qualche anno nel
mondo sanitario statunitense.
http://www.aduc.it/dyn/avvertenze/newtex.php?ed=149&tipo_id=2
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